IN AFGHANISTAN LA STORIA HA FATTO UN PASSO DI LATO

Quanto sta accadendo in Afghanistan non è per niente un affare che riguarda un Paese lontano e diverso; la distanza psicologica non deve farci perdere la ragione, non deve confonderci a tal punto da ingannarci sulla reale portata di questa disfatta. In Afghanistan, e in generale in area MENA, solo apparentemente si sta giocando uno scontro tra due paradigmi della contemporaneità, tra due modi di intendere e agire il potere; Gilles Kepel sostiene nel suo ultimo libro che il destino dell’Occidente si giochi in Medio Oriente, Paolo Perulli, che lo recensisce e commenta, definisce il Medio Oriente come un altro-da-sé per l’Occidente, un diverso che andrebbe accettato come tale. Tuttavia, tragicamente, sembra che questo Altro sia sussunto, insieme all’Io, da un unico, stesso macrosistema. Quasi in una dinamica hegeliana regressiva, si vedono tesi e antitesi confrontarsi e confliggere lungo una cerniera geografica, ma la sintesi pre-esiste lo scontro, e anzi lo genera, vi assiste con compiacimento. 

Diventa forte la tentazione di adottare una visione stadiale della Storia, di leggere l’arrivo dei Taliban come la vittoria dell’orda freudiana, del primordiale, di qualificare gli idiomi sconosciuti come “balbettii”, ma questa lente renderebbe invisibile il contributo che l’Occidente ha dato perché le cose andassero così, sarebbe l’ennesima giustificazione degli sfaceli prodotti dal nostro modo di occupare il mondo. Radcliffe-Brown afferma che l’evoluzione delle società segue due linee, una prima che va da una minore a una maggiore proliferazione di strutture, una seconda che dalla semplicità approda alla complessità; se, dunque, la modernità industriale è stata plurale e complessa, bisogna comprendere quali caratteristiche evidenzi della contemporaneità l’affermarsi sugli Stati Uniti di un’organizzazione di etnie tenute insieme dal collante religioso e giuridico della Sharia. 


Il tentativo di imporre un sistema di regole in un Paese che vede tali regole come estranee, non può consumarsi in un tempo breve come un ventennio. Ricordando de Montaigne, per costruire la legittimazione di un nuovo sistema di regole è necessario un fondamento mistico, ossia un primum - inconscio? - che funga da visto per il nuovo assetto. Scavando nella memoria recondita di ogni democrazia, si può incappare in un primigenio atto di forza, una scena primaria in cui il potere democratico è imposto in modo coercitivo. Questo tradisce la logica, ma non la Storia: è storicamente possibile che le democrazie nascano in modo non democratico. Quello che in Afghanistan è mancato è, però, il tempo, che significa la possibilità che il nuovo regime mettesse radici e si consolidasse, assumesse senso, che il nuovo ordine diventasse ordinario. Sulla stampa, in questi giorni, il processo di esportazione della democrazia è stato paragonato all’apertura di un fast food: paragone poco calzante, perché assai diversi sono i gradi di complessità dei due sistemi e le psicologie necessarie a sostanziarli. Una democrazia non ha nulla a che vedere con il consumo. 

Ha però molto a che vedere con la cultura democratica, e in questo senso è utile pensare nei termini di quella che Kroeber definì stimulus diffusion: l’elemento di una cultura si trasferisce a un’altra cultura che lo assimila e rielabora, con tratti di unicità. La diffusione avviene più facilmente e velocemente laddove la cultura di arrivo abbia già degli elementi analoghi, sovrapponibili: tradizioni, usanze che attraversano meridiani e paralleli e si insediano in ecosistemi culturali totalmente estranei. Una democrazia però è decisamente più corposa di una singola tradizione, perché consiste in molteplici elementi e nelle relazioni strutturali tra questi. In Afghanistan, l’ultima memoria democratica risale agli anni ‘80; chi ha frequentato all’epoca classi scolastiche miste e laiche, per esempio, oggi ha intorno ai cinquanta-sessant’anni. In un Paese in cui la piramide demografica ha davvero la forma di una piramide, e non quella di un pino d’Aleppo come nei Paesi europei, significa essere in minoranza, perché la maggioranza della popolazione è nata sotto la guerra civile, sotto il primo regime talebano o sotto la guerra al terrore guidata dagli USA. 

Tuttavia, gli ultimi anni sono stati per molte e molti afghani, soprattutto per le donne che vivevano in città, anni di speranza. Sono proliferate iniziative dal basso che hanno iniziato timidamente a irradiare cultura femminista, cultura dei diritti, cultura democratica. The future of politics is grassrootsi dice tra alcuni scienziati politici contemporanei, ma queste componenti venute dal basso sono delicatissime, come le asteraceæ nate sulla sabbia, e ci vuole davvero poco per spazzarle via. Quindi un barlume di cultura democratica su cui fondarsi c’era, forse era scarsa la fiducia, forse era fragile la convinzione, le disparità tra aree rurali e urbane era cresciuta a dismisura; ma il ground c’era. È mancato del tutto il tempo, che significa anche che è mancata la volontà politica di spiegare al mondo intero, in testa a tutti ai cittadini statunitensi, che vent’anni sono nulla per organizzare una democrazia in un Paese scosso e percosso.


Il ritorno dei Taliban rappresenta un’evoluzione verso un’organizzazione clanica, tribale dello Stato, fondata su un complesso militare-religioso che presenta sì profonde differenze dall’Occidente, ma che nella componente militare invece trova un ponte solido. La barbarie che vediamo nei Taliban è l’evidenza di una forma alternativa del presente, di una possibile evoluzione di quel set di premesse date dal mercato globalizzato in un territorio periferico. In maniera diversa, un’organizzazione clanica è presente anche nelle democrazie occidentali: su base etnica, regionale, professionale, una quota sempre maggiore del potere viene ceduto dagli Stati a soggetti privati, i quali garantiscono in cambio del potere stabilità; da questo punto di vista, sottolinea Armao, un Consiglio d’Amministrazione non è funzionalmente diverso da un clan mafioso, da una gang giovanile, da una banda armata. 

La Storia, in Afghanistan, non ha fatto un passo indietro, ma un passo di lato. Ha mostrato la possibilità di evolvere anche senza diritti umani. È forse la fine dell’universalismo la vera disfatta che si è consumata in questi giorni in Afghanistan. 

Bibliografia

Kepel, G., & Balanche, F. (2018). Sortir du chaos: les crises en Méditerranée et au Moyen-Orient. Gallimard.

A. L. Kroeber, & A. L. Kroeber. (1940). Stimulus Diffusion. American Anthropologist, 42(1), 1–20.

Armao, F. (2020). L’età dell’oikocrazia: Il nuovo totalitarismo globale dei clan. Mimesis.


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