MA LE VOCI SONO VERE?

da Leggende Metropolitane: la Parola come Lógos, Épos e Prâgma.

«Oltre a quella del mŷthos, il pensiero occidentale riconosce l'esistenza di un'altra definizione della conoscenza volgare, quella di dóxa, che ne denota gli aspetti sofistici, ovvero il fatto che, posta l'impossibilità di conoscere la realtà in sé, teorie anche contrapposte che di essa vengono formulate sono da considerarsi ugualmente valide; la verità dunque non risiede nel riscontro empirico, né nella correttezza logica, bensì nella forza retorica della costruzione di senso. In questa accezione, la conoscenza volgare come dóxa può essere sovrapposta al concetto di voce, intesa genericamente come discorso attorno ad un oggetto.

Una voce è innanzitutto un mass media, definendo quest'ultimo come un mezzo di comunicazione in grado di raggiungere un vasto pubblico. Ma non solo: tra i mass media, è senz'altro il più antico [Kapferer, 1987]. Per quanto il concetto di voce sia intuitivamente riconoscibile, come molti fenomeni psicosociali si rende estremamente evanescente, se sottoposto ad uno schematismo epistemico di tipo galileiano. Ciononostante, alcuni significativi tentativi in questa direzione sono stati fatti a partire dalla seconda metà del secolo scorso, con l'emergenza, da parte del War Information Office americano, della necessità di controllare le fughe di notizie. Durante la Seconda Guerra Mondiale, ci si rese conto della potenza del fenomeno delle voci, che rendevano la popolazione conscia di informazioni segrete o comunque ancora prima che ne venisse fatta una pubblicazione istituzionale; la pericolosità percepita di un simile mercato nero dell'informazione [Kapferer, ibidem] era tale da obbligare lo stesso War Information Office a ricorrere ad una contro-voce, secondo la quale il nemico sarebbe stato una fantomatica Quinta Colonna, intenta a spiare gli Stati Uniti e che ogni buon cittadino americano, con il proprio riserbo nel diffondere notizie, avrebbe dovuto contrastare.


Allport e Postman [1947] in questo contesto definiscono la voce come “proposizione legata ad avvenimenti del giorno, destinata ad essere creduta, propagata da persona a persona, senza che esistano dati concreti tali da comprovarne l'esattezza”, sottolineandone dunque come elementi necessari e sufficienti l'attualità, la circolazione e la mancanza di ufficialità. Similmente Knapp [1944] suggerisce di classificare come voce qualsiasi “dichiarazione destinata a essere creduta, che si riferisce all'attualità e si diffonde senza una verifica ufficiale”, mentre secondo Peterson e Gist [1951] la voce è “un resoconto o una spiegazione non verificati che circolano da persona a persona e vertono su un oggetto, un evento o una questione di pubblico interesse”.

Per quanto concerne i caratteri di attualità e circolazione, una voce può essere paragonata ad una notizia. Il sociologo Shibutani [1966], ad esempio, ne descrive l'esistenza come la risultante di una relazione moltiplicativa tra l'ambiguità dell'oggetto su cui verte e l'importanza, ovvero ciò che intuitivamente si può dire generi curiosità per un argomento:


v = importanza x ambiguità

Disgiungere sul piano analitico la curiosità-importanza dall'ambiguità rappresenta in alcune circostanze una forzatura, innanzitutto perché un'informazione può essere rilevante proprio in virtù della sua ambiguità, e in secondo luogo non permette di spiegare perché vi siano voci su oggetti non ambigui, come personaggi politici noti o multinazionali, che attivamente si spendono per creare un'immagine di sé univoca e facilmente identificabile nell'opinione pubblica.

Rispetto alla questione della verifica invece sembra esserci stato un certo accanimento da parte degli studiosi, in particolare Allport e Postman, nel qualificare le voci in base alla loro falsità. Oltre al fatto che la pericolosità delle voci per il War Information Office fosse proprio attribuibile al fatto che in molti casi si fossero rivelate vere, scegliere questo come elemento definitorio, sia nei termini di una non veridicità, sia in quelli di una mancanza di verifica, significa ricalcare le linee di una metafora patomorfa, secondo un gusto vago e retrò di stampo positivistico. Morin [1969] in particolare iscrive le voci (che per il sociologo sono sempre false) in un quadro esplicativo psichiatrico, denunciando la loro circolazione come contagio di irrazionalità di tipo infettivo, quando i nodi della rete comunicativa entro cui viaggiano sono contigui, o metastatico, quando la voce si diffonde a macchia di leopardo. Una definizione più recente viene fornita da O'Sullivan [1994]: sarebbero da considerarsi una voce tutti i “discorsi non ufficiali e non accreditati: il risultato finale di un'informazione non verificata che si è andata sviluppando lungo una serie di passaggi all'interno di un sistema di comunicazione”. Un primo territorio di indagine, dunque, è costituito dall'analisi delle voci alla luce della loro valenza comunicativa.

Indipendentemente dal suo valore di verità, una voce circola solo a patto di essere ritenuta vera; questa considerazione si schiude ad un problema logico fondamentale: esiste una differenza tra una voce e una diceria, consistente nel fatto che la prima può esistere solo a patto che non venga riconosciuta, mentre la seconda è la risultante del riconoscimento dello statuto di “voce” ad un'informazione. In altri termini l'esistenza di una voce è riscontrabile solo nella sua concreta e attiva circolazione, mentre cessa di esistere nel momento stesso in cui riflessivamente viene identificata come tale. Dunque la questione della verifica, nell'approcciarsi osservativamente alle voci, deve porsi non tanto nei termini della sua ufficialità, bensì nell'interrogativo circa i criteri che ingenuamente gli esseri umani adottano per considerare un'informazione vera.»

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