PICCOLO SCRITTO SUL CORPO

Quello che ho il piacere di presentarvi qui, in due dei suoi brani notevoli, è uno scritto, un piccolo scritto, che parla di corpo. Parla di corpo perché parla attraverso il corpo, che la sua autrice - del corpo, oltre che del testo - Chiara Previtali ha assurto a metodo del lavoro pedagogico. La liberazione di Eros come crescita, e non come mera scarica pulsionale vissuta hic et nunc. Una Pedagogia Selvaggia che fa tornare al grado zero attraverso un consapevole atto di spoliazione, e non per sola in-educazione. La sicurezza del Centro, nel Caos.

Riscoprire Eros

La teoria, l’intelletto e la tecnica sono utili, ma non bastano; se lasciati a reggersi su da soli risultano inefficaci. Essi costituiscono l’imbastitura, rappresentano lo scheletro, dopodiché, quel che serve sono muscoli, sangue, nervi e pelle. Solo così ci si trova davanti a qualcosa che “è in vita” (Barba E., 1993), mettendo cuore e passione, immergendosi nella profondità della materia calda che è in ognuno di noi. In questo modo si possono cogliere i legami impercettibili che passano tra le cose e ci si lascia sorprendere dai bagliori della rivelazione del reale, spogliandosi del proprio sguardo giudicante: un’esplosione di rosso che scorre impetuoso e dona nutrimento, vitalità, potenza al corpo. Corpo che diviene animato dall’Eros, come fuoco attivo che accende la miccia del desiderio e della passione, fuoco che brucia, che penetra il corpo e che spinge alla vita; corpo pulsante animato di desiderio libidico alla partecipazione del mondo (Barioglio M., 2010). Questo ridesta alla vita, e un individuo “in-vita” diventa sensuale: seduce, cattura, fa innamorare. L’antidoto per un’esperienza ingessata ed un sapere distaccato potrebbe essere il risveglio di Eros, per appassionarsi ed appassionare, per rendere un altro “innamorato” (Barba E., 1993).

Non si tratta di convertire il mondo, ma di riportarlo alla sua posizione originaria, perché il mondo oggi sembra nascosto da costruzioni e incrostazioni createsi nel tempo, soffocato da vecchi miasmi fossilizzati in cui le tensioni erotiche e il piacere di fare sono irrigiditi e intorpiditi. Occorre ridare alle passioni un giusto posto, per godere, sentire e aprirsi con tutti i sensi al fare, al pensare e al ricevere sapere. In questo modo non sarebbe più tollerata la prigionia di un ufficio, di un banco, di una scrivania, il corpo non sarebbe più schiavizzato e si reclamerebbe il contatto con la natura, con la terra, come condizione quotidiana. C’è bisogno di nuovi scenari per cibarsi di un sapere che diventa polpa di vita; il corpo diviene il nocciolo centrale, come sensore di recezione del mondo, come corpo che guida e scandisce la vita, con i suoi tempi ed i suoi ritmi. Occorre ripensare un ambiente che faccia del corpo il soggetto da riportare al centro, come groviglio di pulsioni, carica magnetica che riconnette al mondo, accogliendo le infinite possibilità di manifestazione: corpo che crea, che distrugge, corpo che desidera. Corpo che, con una giusta sovversione, diviene appagato (Mottana P., 2011).

Il modo per attingere ad Eros è rintracciabile non tanto nel “cosa”, quanto nel “come”: costruendo e plasmando uno spazio pensato e un tempo adatto, curandone parole e gesti, trovando le forme adatte al suo manifestarsi (Mottana P., 2010), “affinchè siano carichi di vita, ricchi di bellezza, pregni di significato intuibile, percepibile, a irrigare e fecondare gli ambienti svuotati e disanimati in cui normalmente si svolge” (Mottana P., 2010, p. 31) ogni agire. Bisogna avere cura di tutto questo, eliminando ogni pre-giudizio e stereotipo, lasciando germogliare liberamente il desiderio, per godere a pieno dell’esperienza, in maniera appassionata. Occorre disinibizione, “immaginazione danzante, erotica, plurale, profonda” (Mottana P., 2010, p. 15), occorre osare per arrivare a godere dell’ispirazione libidinosa, che si trasmuta in dono, in generosità verso l’esterno. Il richiamo è quello a liberare la dimensione espressiva, lasciar fluire la creatività e coinvolgere i corpi, sollecitando all’avventura e alla corporeità. Non più corpi imbrigliati, costretti a muoversi solo in momenti già predefiniti e limitati, o esperienze passive e frontali, che contribuiscono a creare, sempre più, nubi ed esalazioni malsane (Mottana P., 2010).

Il Naufragio della Dimensione Corporea

“Sono ancora pieno di stupore 
di fronte a tali forme, a tali gesti, 
e a tale suono, che esprimevano 
– pur senza l’uso di lingua – 
un discorso del tutto compiuto.” 
(Shakespeare W., 2012, p. 127)

Cosa c’è di più primitivo di gesti e movimenti? Potrebbe essere questo il quesito di fronte al quale Shakespeare, con le battute di Alonso ne “La tempesta”, sembra porci. C’è grande stupore da parte del personaggio nel constatare che ciò a cui ha appena assistito sia stato così meraviglioso, così forte, così completo anche senza l’uso della lingua parlata. Le parole si fanno carne nelle azioni, ma il corpo viene prima. Esso riesce ad essere maestoso anche senza la lingua e, anzi, è persino capace di lasciare senza parole, talvolta, grazie alla sua enorme capacità di espressione. Ma questa non è una competizione fra questi due elementi; ogni movimento riguarda il corpo nella sua totalità, perché parlare di azioni e gesti significa parlare pienamente del corpo. Il corpo connette: parola e corpo, teoria e pratica. Esse non sono divise. Bisogna ribaltare questa prospettiva e ritrovare una visione integrata di questi due elementi (Gamelli I., 2011).

Il corpo che brucia è un corpo vivo che arde, è un incendio di gesti, movimenti, sguardi, silenzi, in cui sono intessute le parole, che danno alle azioni una potenza enorme, così come le azioni danno carica esplosiva al linguaggio parlato (Gamelli I., 2011). E’ l’azione ad essere viva, ma è solo la parola che può conservare nel tempo il senso dell’azione. La domanda è se questo incendio sia ancora guizzante, giocoso, con lingue infuocate che sono sguardi e moti sulfurei e scoppiettanti o se invece questo ardore sia stato ridotto ad un focolare, controllato e normalizzato. Occorre munire ogni individuo, ogni esperienza ed anche ogni contesto istituzionale o educativo della possibilità di vivere in maniera autentica un dialogo con il proprio corpo, di sperimentarlo, per ritrovare ed esprimere la vitalità prorompente per le cose. Partire proprio dai corpi per creare una sovversione della relazione che l’individuo ha nei confronti del mondo, sconvolgere i mari e i processi odierni troppo distaccati e ripescare la naufraga dimensione corporea (Antonacci F., 2012). Bisogna prendere coscienza del fatto che la parola non è l’unica fonte di una relazione, il senso di una relazione è compreso sempre nel “qui ed ora” di due o più corpi che interagiscono; lasciare da parte un pensiero in cui l’intelletto ha il sopravvento, perché un eccessivo pensare può rivelarsi scomodo e una relazione troppo “pensata”, costruita, pre-fabbricata, è in autentica (Gamelli I., 2009).

Si è compresa l’importanza di creare percorsi alternativi, che conservino i caratteri di un processo di trasformazione. Accade lo stesso nei contesti educativi, in cui si comprende che la trasmissione esclusiva di contenuti e parole non rappresenta l’educazione.

“Non si raggiunge ciò che non si sente.” 
(Goethe J. W. in Antonacci F., 2012, p. 179)

…perciò bisogna creare luoghi adatti alla sperimentazione di sé, all’interno di edifici non soltanto istituzionali; dar vita a spazi per esprimere la propria vitalità e creatività, possibilità finora sovrastata dalla pressione di prestazioni, valutazioni e misurazioni; dare spazio alla dimensione corporea, accorciando la distanza tra il corpo e la dimensione verbale (Antonacci F., 2012). Ogni azione che compiamo ci forma e ci trasforma, la mente si ciba e accresce attraverso il corpo e l’immaginazione. Ci si deve educare alla relazione, fatta di esperienza concreta, corporea e sensoriale: l’immaginazione ci aiuta a non ripercorrere i vecchi passi e a non ripetere ciò che siamo già stati. Divincolarsi, per non lasciarsi inghiottire dalle onde degli automatismi, per evadere dal processo che ci rende prodotti dei nostri contesti culturali, per guardare da fuori, crearsi una zattera, distanziarsi da tutto ciò e capire (Gamelli I., 2009).

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