IL CORPO-IN-QUANTO-TELA: L'ERMENEUTICA DEL TAGLIO
L'autolesionismo è senz'altro una realtà che impegna molto. I genitori, che ne hanno una gran paura, la società educante, che si interroga sulla sofferenza in quanto malattia della psiche, e gli autolesionisti stessi, che si danno da fare per portare a compimento i propri intenti. Nei termini in cui abbiamo iniziato a parlarne, l'autolesionismo risulta essere un tema giovanile; in un lavoro di Di Leo e Heller del 2004, in un campione di adolescenti australiani di 15 anni e mezzo in media risulta che 6.2% ragazzi adottino comportamenti autolesionisti; in uno studio del 2009 di O'Connor e collaboratori, invece, il 13.8% dei soggetti, tutti adolescenti tra i 15 e i 16 anni, risultavano interessati dal fenomeno. Secondo Russell e Hartung [2015] il numero di adolescenti che si provocano ferite è in crescita; Bjärehed e Lundh nel 2008 evidenziano che in Svezia gli adolescenti che commettono gesti autolesionisti oscillino tra il 36 e il 40%. Questi numeri, lungi dall'essere esatti e rappresentativi, ci raccontano modi differenti di inquadrare il problema, facendolo ricadere nel terreno della rarità i primi due, dell'allarme sociale gli ultimi due, e questi sono effettivamente i modi in cui anche gli spettatori dell'autolesionismo si rappresentano il fenomeno; sia che lo si consideri marginale, sia che lo si consideri una piaga, la domanda "Ma in quanti lo fanno?" rimane sempre sullo sfondo.
Non si tratta solo di adolescenti, comunque: i medici sanno bene che a farsi taglietti sono varie persone, di cui una parte negli ospedali va a costituire una piccola popolazione bizzarra. Come ogni negozio ha un cliente strano, un personaggio, un po' matto e un po' simpatico, anche i reparti d'ospedale hanno queste curiose persone, di ogni età e genere, che chiedono di essere visitate e fanno di tutto per arrivare a convincere i medici a visitarli e operarli. Solitamente le prime volte il piano va in porto, il paziente autolesionista riesce a finire sotto i ferri; ma è poi nella guarigione che iniziano gli imprevisti, con ferite che non si rimarginano mai, punti di sutura che saltano in modo improbabile, fino all'agnizione della vera natura della volontà della persona: provare dolore.
L'altra parte di autolesionisti che visitano gli ospedali, invece, è costituita da quelli che nella sperimentazione della tenuta del limite perdono il controllo, si spingono troppo oltre e si spaventano. Rossi Monti e D'Agostino citano un lavoro del 2003 in cui si stima che circa il 4% degli adolescenti adotti comportamenti autolesivi, ma che solo il 12.5% di questi arrivi al punto di dover andare in ospedale; un numero esiguo, ma abbastanza grande da suscitare un'eco di preoccupazione.
Dalla letteratura l'impulsività pare essere una cifra fondamentale dell'autolesionismo. Il ritratto clinico è quello una condotta segnata dall'impossibilità dell'esercizio di controllo, emergente dalle profondità recondite dell'inconscio; un programma d'azione che in questo suo apparire necessario e imposto non può che essere considerato sintomo. Effettivamente i soggetti autolesionisti possono rendere conto narrativamente dell'alterità della provenienza dell'intenzione del gesto raccontando di essere stati guidati, comandati, ispirati da un'entità oscura, alla quale potrebbero sentire di dover dedicare l'atto autolesionista; è il caso di alcune compagnie di adolescenti che vedono nel tagliarsi o nel procurarsi dolore un rituale di condivisione profonda e di riconnessione a un cosmo sovraordinato.
Ma non è sempre qualcosa che si ama mostrare. Immediatezza e urgenza sono elementi imprescindibili dell'impulso, e di impulso trattiamo quando siamo di fronte alle braccia segnate di un adolescente. Lo spazio e il tempo si incurvano nell'attimo privato, la concentrazione si fa massima così come intimo diviene il luogo; l'atto si compie, sotto la naturale anestesia dell'adrenalina e della paura. Un istante dopo, quando il sangue inizia a sgorgare, ci si cura, alternando lo sguardo premuroso a quello curioso, lo sguardo preoccupato a quello esaltato.
Quando si parla di controllo è facile che il discorso psicologico attinga all'immaginario della patologia. Il ritratto della wrist slasher del 1967 dipinto da Goldwyn e collaboratori è quello di una donna giovane e non coniugata, con buon livello intellettivo e spaventata da sessualità: curiosamente molto simile a quello dell'isterica della psichiatria tardo-romantica. Secondo altri studi i fattori di rischio dell'autolesionismo sarebbero di ordine neurologico (degenerativi, epilessia, Parkinson) e psichiatrico (depressione e psicosi), mentre in altre ricerche emerge una correlazione con abuso di sostanze, disturbi di personalità, assunzione di psicofarmaci senza prescrizione. In una ricerca condotta in Svezia risulta che l'essere single, bianchi, nati in stati del Nord Europa e avere un reddito basso - indipendentemente dal genere - sono predittori di condotte autolesive.
Il DSM-IV TR, veicolo principale di molte delle rappresentazioni cliniche delle soggettività umane sofferenti, collega l'autolesionismo al rito ordalico del borderline che sfida ripetutamente la morte, e in effetti l'inserimento di una scena di dolore autoinferto sembra molto comune nello script di tale patologia [Rosenbaum, 2016] addirittura la più comune [Herpertz, 1995]. Nella Short-Term Assessment of Risk and Treatability autolesionismo e aggressività, assieme alla vittimizzazione, sono considerati vulnerabilità predette dal questionario che rientrano nell'ambito della psicopatologia [O'Shea et al., 2015]
Tuttavia è innegabile che l'autolesionismo sia un fenomeno che non affonda le radici nella sola psicologia, ma si sviluppi anche entro una dimensione antropologica: lo stesso ricorso all'immagine del rito ordalico ci spinge in una direzione che trascende la descrizione del disagio individuale e si colloca nei rituali di una comunità: pensiamo alle iniziazioni religiose, alle ferite e graffi che le prefiche nell'Antica Roma si procuravano sul viso, a Muzio Scevola e al suo giuramento con la mano sul fuoco; e ancora a pratiche tribali riadottate nella contemporaneità da alcuni ragazzi, quali piercing e tatuaggi. Alla luce di considerazioni del genere possiamo chiederci: se rinunciamo a cercare il significato dell'autolesionismo nella semantica della patologia, che cosa ci rimane?
Secondo Lopes Arcoverde e collaboratori [2016], il discorso sulla vita e sulla sua preservazione può essere considerato un dispositivo biopolitico á la Foucault, ossia un modo per esercitare un controllo su larghi numeri di persone attraverso la creazione di senso e il potere che discende dal discorso comune. Le persone che praticano autolesionismo, d'altro canto, si contrappongono a un simile modo di vedere le cose restituendo la dimensione artistico-espressiva ed edonica del dolore; siamo di fronte, quindi, a soggettività che adottano il dolore come valore fondativo di un complesso di emozioni, pensieri, riflessioni, modi di essere in società che travalicano le capacità ermeneutiche di Psicologia e Medicina.
Prendiamo quindi posizione sulla patologia, per poter davvero sentire che siamo nell'ambito in cui è lo psicologo a dover intervenire, e non l'antropologo: in cui il tipo di lavoro richiesto allo specialista è sulla sofferenza della persona, e non sullo statuto di una cultura; una situazione in cui, in modo molto spassionato, la meta è che il comportamento non venga più agito e non che il contesto impari a comprenderlo e a giustificarlo. Fissiamo il confine tra il rituale religioso e il sintomo nella natura anancastica del secondo, nel suo rendersi una risposta indispensabile a uno stimolo che nasce interiormente; mentre ciò che pertiene alla religione è comunque una variabilità, anche solo nella volontà espressa dalla decisione di attuare una sequenza codificata, in risposta a un bisogno che è l'appuntamento prestabilito di una comunità, e non la spinta interna e imprevedibile.
Uscire dal campo della psicopatologia e considerare che l'uso del corpo che viene fatto dagli autolesionisti è del corpo-in-quanto-tela [Rosenbaum, 2016] ci permette di riconsiderare il ruolo dello Psicoterapeuta e del Counsellor come ermeneuta di segni, e non solo operatore della salute mentale. Se il corpo è una tela allora il taglio diviene espressione di un senso; l'autore è quindi artista, e questa assunzione temporanea può costituire un buon viatico per la comprensione del senso espresso dall'adolescente. Molti esponenti della Performing Art e della Letteratura hanno trattato il tema del dolore esplorandone le pieghe più profonde.
In Gina Pane la ferita è un atto di ribellione ed espressione di una libertà conquistata. Non è però nel suo essere shoccante che si esaurisce il potenziale della sua espressione, poiché il segno continua a raccogliere significato nello strascico che lascia dopo essersi manifestato agli occhi del pubblico. Secondo l'artista la ferita è infatti un dialogo da aprire, un dialogo che mette a conoscenza l'altro delle profondità di chi ha di fronte. Tutto scaturisce da un guizzo, un guizzo di dolore che attraversa la schiena di chi assiste. La reazione del pubblico al dolore dell'artista diviene quindi un discorso, un pensiero smosso, lo spazio dell'osservazione, prima vuoto, si riempie di mormorii di coscienze, molti giudizi, qualche condanna, forse scoperte: il silenzio è comunque irrimediabilmente rotto.
Lucio Fontana non si colloca tra gli artisti che utilizzano il corpo come strumento espressivo, ma fa del taglio un atto impregnato di senso. La tela è una realtà virtuale, e consiste nella superficie del dipinto. Questo rende irrimediabilmente alieno qualunque osservatore, in quanto presente in una realtà con dimensionalità differente. Non solo: la tela è anche quarta parete in cui la scena descritta viene a confondersi, alludendo, rimandando alla propria verità solo mediante indizi prospettici, soluzioni realistiche che non sempre sono, nell'intuizione dell'artista, necessarie. Tagliare la tela diviene quindi il solo modo per esplorare l'infinito che si cela dietro di essa, per connettere ciò che sta di là e di qua.
Nel racconto Nella Colonia Penale, Franz Kafka narra di un macchinario costruito durante l'età dell'oro del giudizio e della pena capitali in un luogo indeterminato, fantastico ma dai contorni realistici. Si tratta di un erpice che incide sul corpo del condannato la sentenza, scrivendola in un alfabeto incomprensibile alla vista, ma che viene decifrato dalla vittima nella scrittura stessa. La sentenza non è nota al prigioniero, così come il processo è ritenuto inutile: la parola pronunciata, quella dell'autodifesa, è infatti portatrice di caos e menzogna; a essa si sostituisce la parola vera, che è quella che viene incisa sul corpo del condannato, andando via via più in profondità fino alla morte dell'uomo. Il supplizio si esprime inizialmente in sofferenza e urla, ma man mano che le ferite si fanno gravi si trasforma in silenzio e pazienza.
A partire dal marchio di Caino fino all'invenzione nel 1871, ad opera di Samuel O'Reilly a New York, della macchina per i tatuaggi, l'atto del procurarsi dolore ha sempre schiuso un significato che eccede quello concepibile attraverso la sola psicologia. Rossi Monti e D'Agostino affermano che ogni taglio è un percorso diverso: è per questo che abbiamo considerato gli artisti, al confine tra patologia e antropologia, forse i veri soli deputati a raccontare il senso profondo del dolore in un modo non tecnico, ma apertamente culturale.
Molte suggestioni artistiche sono riproposte dai copioni della sofferenza, in modo spesso del tutto inconsapevole. La permanenza del segno nel tempo, che modifica il corpo in modo indelebile attraverso la cicatrice e l'imbruttimento (Franko B), laddove "Artist must be beautiful" a ogni costo, come disse Marina Abramovich; il desiderio di comunicare senza sedurre, ma anzi di allontanare, provocare, infastidire attraverso una prova di forza e autocontrollo consacrata alla testimonianza di un pubblico giudizio (Gina Pane). L'impulso si mescola con la precisione del chirurgo (Lucio Fontana), ma il meccanismo dell'incisione, perfetto nello svolgimento, frutto dell'incastro degli ingranaggi e del loro calcolo, che si inceppa inaspettatamente e sfugge al controllo tradendo il suo esecutore; la punizione di una colpa che è sempre indubbia in quanto ignota (Kafka).
Nell'attività ermeneutica, tuttavia, non dobbiamo dimenticare il prerequisito etico della rinuncia alla determinazione totale, alla spiegazione che svela ogni anfratto del senso del segno, sia esso artistico o sintomatico; "Noi vogliamo stare soli di fronte all'opera d'arte: ne vogliamo sorprendere la genesi, ne vogliamo cogliere tutto il significato, anche quello che è sfuggito all'autore stesso nella sua inconsapevolezza" disse D'Annunzio a proposito della critica testuale. Ma è proprio nell'abbandono della sicurezza illusoria dell'interpretazione e nell'accoglienza dell'indeterminazione, dell'oggetto=x per dirla come gli Strutturalisti, che il taglio trova la possibilità di essere com-preso. A tal proposito concludo con le parole di una mamma, con la quale ho lavorato sull'interpretazione dell'autolesionismo del figlio, dicendomi in conclusione dell'ultimo dei nostri colloqui: "Ho deciso di non chiedermi più cosa fa e perché lo fa, ho capito che non lo capisco, ma lo voglio accettare per come è, per il senso che ha e che io non capisco".