UN BUON LAVORO A TUTTI

Parlando una volta con una cara amica pianista di professione del tempo e dell'organizzazione di questo, ricordo che mi citò le parole di un suo collega, rimaste per me incise nella memoria, il quale disse più o meno così: "La mia giornata è piuttosto semplice: ho 8 ore per dormire, 8 per esercitarmi al piano e 8 per fare ciò che voglio". A sentirla raccontare così, una giornata pare avere davvero molto, molto tempo di cui disporre. 
Quando si ha a che fare con manager e dirigenti in sede di consulenza, spesso li si sente riproporre una frase che, probabilmente, per ciascuno di loro ha valore di novità, ma che per il consulente ha invece valore di formula, di ritornello: "Non ho tempo". Per irrompere ironicamente in questa convinzione granitica mi piace di solito provocare l'interlocutore mettendo in luce che, materialmente, nessuno ha tempo, perché il tempo non è una dimensione dell'avere, bensì dell'essere.

Sant'Agostino definiva il tempo come distensio animi, termine che merita almeno una piccola sosta. "Distensio" ha la radice del "tendere", che ritroviamo nel termine "estensione"; tuttavia estensione ha il significato di un qualcosa che si srotola a partire da un iniziale raccoglimento assoluto, come nel caso della res extensa di Descartes. Troviamo "tendere" anche in "intensione", che invece pertiene alla definizione logica delle categorie secondo una serie di attributi necessari e sufficienti, un po' come se ne fosse il DNA. Distensione invece crea l'immagine di un qualcosa che si lascia cadere, che muta di posizione ma non di forma, che si adagia: dove? Verrebbe da speculare che l'animo in Sant'Agostino si adagi nello spazio, attribuendogli così un'intuizione quasi relativistica, ma ci spingeremmo in un campo che ci farebbe allontanare troppo dal nostro argomento. 

Oggi è il primo maggio, ed è la Festa del Lavoro secondo alcuni, dei Lavoratori secondo altri, comunque si festeggia quella che è una grande attività umana (e ci siamo resi enormemente conto di tale importanza quando il lavoro in quanto categoria dell'esistenza è stato messo in dubbio dalla crisi economica appena trascorsa). Si sceglie il primo maggio in molti Stati del mondo perché avvenne in questa data il primo riconoscimento della giornata lavorativa di otto ore: una conquista che risale alla fine dell'Ottocento, ottenuta primariamente negli Stati Uniti e poi diffusasi nel resto del pianeta.

Può risultare scontato, ma sicuramente non è banale che una giornata lavorativa duri otto ore, e infatti nello scenario dell'inizio seconda industrializzazione - quella che avrebbe visto il passaggio dal carbone al petrolio - la paga di operai e proletari in generale era a cottimo, il che significa che molti lavoratori facevano a gara per lavorare più ore possibile, incuranti della stanchezza e dei pericoli; questo brano di Verga, tratto da Rosso Malpelo, può aiutare a farsi un'idea:

Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'ingrottato, e dacché non serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava.

A Torino, nella fine dell'Ottocento, la giornata lavorativa media per un'operaia era di 16 ore; venne ridotta a 10 nel 1906 in FIAT, dove però si incentivava con maggiorazioni del salario interessanti la permanenza oltre le 12 ore. Nel 1933, con la forte crisi dovuta alla crescente disoccupazione, legata a sua volta dal progresso tecnologico che aveva reso inutile l'impiego di molti operai, sostituiti dalle macchine, Agnelli suggerisce come soluzione la riduzione dell'orario di lavoro: assimilata la lezione fordista circa il fatto che più disoccupati significa meno clienti, comprende l'importanza della riduzione dei picchi negli orari di lavoro a compensazione degli avvallamenti. Si parla, nel dibattito tra Agnelli e il senatore Einaudi, di due ordinamenti: da un lato quello tecnologico, dall'altro quello sociale, rispettivamente (diremmo oggi) il core-business e l'organizzazione.

Mantenendo la distinzione tra i due livelli e applicandola alla contemporaneità, possiamo dire che per moltissimi aspetti l'Italia si mostri avanzata nell'ordinamento tecnologico: si esportano eccellenze, alcune crescono qui, comunque non fatichiamo a rovistare nel nostro DNA e a ritrovare lo spirito di Marco Polo, Colombo, Galileo, Meucci, De Finetti e tanti altri. Tuttavia, se consideriamo l'ordinamento sociale, ovvero il modo in cui il lavoro è organizzato, possiamo dire che la nostra cultura sia portatrice di un'idea del tutto obsoleta, a cominciare proprio dal management. In un bellissimo articolo sull'importanza della pausa, Osvaldo Danzi dice:

Viviamo una tradizione di manager super-impegnati sostenuti da scuse da scolaretto che vanno dal “dottore è in riunione” a “risentiamoci fra 3 mesi, adesso siamo sotto budget” (che una volta di queste vorrei chiederlo: ma se lei che è il direttore del personale ci mette 3 mesi a chiudere un budget, che vita farà mai il direttore amministrativo-finanziario?) sono lo specchio di un management molto concentrato su di sé, su obbiettivi sempre più personali e sempre meno aziendali più o meno chiari, attenti a dimostrare e sempre meno a ragionare, confrontare, relazionare. Sono quelli che continuano a guardare il computer quando sei di fronte a loro a spiegargli qualcosa di profondamente importante per te, mentre loro fanno “sì sì” con la testa.

Il lavoro per obiettivi (Goal Setting), che è sembrato per lungo tempo un traguardo appetibile e moderno, non è riuscito a decollare perché molto facile è sentirsi in colpa quando si finisce prima e si pensa ai fatti propri; assentarsi prima delle 8 ore canoniche, addirittura in certi casi riuscire a fare a meno di straordinari non pagati, sembra essere una terribile hybris nei confronti di capi e colleghi; tanti sono i casi in cui le persone, pur di evitare di tornare a casa prima, rimangono sul posto di lavoro senza fare niente.  

Cosa può fare la Generazione Y, il bacino imminente dei nuovi manager, director, dei nuovi HR e dei nuovi F&A, per la cultura dell'organizzazione del lavoro, che abbiam visto essere una questione di importanza sociale? I nati negli anni '80, che nel 2005 tanto hanno spaventato la Fondazione ISTUD con i loro valori postmoderni (ricordo che a un pranzo di lavoro ebbi un'accesa discussione con una loro ricercatrice che definiva grave la prospettiva per il futuro prossimo del lavoro), concepiscono il lavoro come un campo in cui realizzarsi per un segmento della propria vita, possibilmente in un ambiente tecnologicamente avanzato, grande e stimolante; non anelano al contratto a tempo indeterminato in quanto progetto a lungo termine, ma solo come forma di tutela per poter acquistare una casa o simili fino al giorno in cui non cambino idea. Tollerano rinvii ingenti rispetto alla propria indipendenza economica, disposti come sono a fare stage, ad aderire a programmi quali Garanzia Giovani, a lavorare volontari per EXPO, ma hanno già acquisito le competenze necessarie ad autogestirsi in periodi di studio all'estero o di Servizio Civile internazionale. 

La Generazione Y, rimasta nel limbo tra riforme del lavoro nei primi anni del 2000 e crisi economica del 2008, è ora pronta a introdurre importanti innovazioni nel modo in cui il lavoro è organizzato. Si pensi all'esperimento svedese, che consiste nella riduzione a 6 delle ore di impiego giornaliero; si pensi agli open space della Pixar e di Google; si pensi alle case produttrici di videogiochi statunitensi, dove i programmatori possono passare diverso tempo giocando in attesa che venga loro una qualche idea geniale; si pensi al bel lavoro sull'anno sabbatico portato avanti dall'amico Riccardo Caserini.

A una conferenza che ho organizzato a Taranto su Le Città Intelligenti, mi sono trovato a parlare con Maurizio Melis di Lavoro Agile, ossia smart working, un fenomeno in crescita in Italia, ma di ancora difficile inquadramento. Pensando a quelle realtà in cui si censura youtube, ci rendiamo conto che il divario tra culture del lavoro è ampio, ma che quella che sta per impiantarsi ora in modo egemonico non considera tabù l'idea che il lavoro possa essere una parte piacevole e significativa della propria esistenza, non solo un travaglio faticoso, un peso quotidiano.

Ecco che quindi l'augurio migliore che mi sento di fare per questo primo maggio è di riuscire a lavorare 8 ore, e di riuscire a lavorarle bene; di essere in grado di sfrondare i sensi di colpa del dedicare il resto del proprio tempo alla cura di sé e al riposo, perché è solo quando ha un limite che il lavoro può essere investito di desiderio: se ci lasciamo colonizzare, difficilmente saremo in grado di avere spunti di crescita individuale, di kaizen

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