NARCISISMO: DALLE ORIGINI AGLI SVILUPPI ATTUALI

Il termine narcisismo ha un sapore antico, sia per le origini del termine, che ci rimanda alla mitologia greca, sia per il ruolo che la patologia narcisistica ha avuto all’interno della Psicologia a partire dalla sua formulazione più nota, la Psicoanalisi.



Il racconto del mito di Narciso viene tipicamente attribuito a Omero e a Ovidio, anche se ha diverse fonti, alcune delle quali molto antiche; descrive un giovane ragazzo, molto bello, che disdegna le attenzioni di tutte le e tutti i pretendenti che lo desiderano; il suo gioco amoroso si configura irreprensibilmente crudele, tanto che arriva a rifiutare lo stesso Eros. Questo passaggio, del rifiuto di Eros, ossia dell’allontanamento dell’amore stesso, è uno spunto importante nella ripresa psicoanalitica del mito. Come spesso avviene nella narrazione greco-classica, l’atto dello sfidare una divinità viene punito in quanto atto di hybris, tracotanza. La punizione ha il sentore del contrappasso: Narciso viene condannato a innamorarsi della propria immagine riflessa in un corso d'acqua; il desiderio di unirsi all’oggetto d’amore diviene così ardente da spingere il giovane a gettarsi nel torrente, morendo annegato.

Non è Freud, come una certa vulgata della Psicologia potrebbe spingere a pensare, il primo a importare i tratti del mito greco nella riflessione psicoanalitica. Infatti, il primo autore che parla di narcisismo fu Ellis, nel 1898, agli albori della Psicoanalisi stessa (è di tre anni prima la pubblicazione di Studi sull’Isteria, considerato da molti il primo testo istituzionale della disciplina). L’autore utilizza il mito per descrivere i pazienti che praticavano la masturbazione in modo eccessivo (comportamento “a mo’ di Narciso”, scriveva all’epoca), un comportamento il cui giudizio, in modo quasi immediato, ci catapulta in un’epoca dopotutto lontana: dobbiamo infatti recuperare molto generalmente il senso di un dibattito che ha animato tutto il XIX secolo, ossia quello del contrasto tra Natura e Cultura; brevemente, possiamo dire che la riproduzione veniva attribuita alla necessità naturale di conservare la specie, pertanto veniva inserito nell’alveo della patologia medica prima, psicologica poi, qualunque deviazione da questo compito innato. Masturbazione, omosessualità e altre forme che oggi definiremmo parafiliache erano considerate a tutti gli effetti patologie [Crozier, 2000]. Il senso di quella che Ellis definisce reincarnazione scientifica del mito [1927] è di affrontare in chiave moderna il tema della sessualità: il mito di Narciso, infatti, nell’antichità esprimeva il senso morale dell’astinenza, non solo del freddo amore per se stessi [ibidem]. All’anno successivo risale l’eco che Nacke fece all’idea di Ellis, introducendo il termine narcismo per identificare quelle situazioni in cui una persona sceglieva il proprio corpo come oggetto di eccitazione erotica, e non il corpo di un altra persona [Symington, 1993]. Seguì nel pieno del tramonto della belle époque, nel 1909, Sedger, allievo di Freud, che connesse il narcisismo all’omosessualità; il maestro gli riconobbe il merito di aver per primo davvero importato il tema nel mondo sigillato della Psicoanalisi [Kohut, 1972; Pulver, 1969].

È necessario un ulteriore passaggio di chiarimento sul narcisismo, prima che Freud arrivi a impossessarsi in via definitiva del diritto d’autore del concetto. Otto Rank, anch’esso suo allievo, si occupò nel 1911 della critica del saggio antropologico di Frazer Il Ramo d’Oro, dove il mito di Narciso veniva messo in relazione al tema del doppio. L’autore, invece, sposta l’attenzione sul tema dell’amore per se stessi, avvicinandosi così al modo odierno di intendere il narcisismo; tuttavia, l’amore per sé si realizza in una sorta di gioco dialettico con la morte, intesa come rinascita: “Questa identità è basata consciamente sulla conquista della morte da parte di una nuova procreazione, e trova le sue fondamenta più profonde nel rapporto con la madre” [Rank in Berman, 1993]. Viene in messa in luce da Rank la natura ambivalente del narcisismo e la sua struttura difensiva, che si attua in due possibili vie: la paura e la repulsione per la propria immagine (come nel racconto Il Ritratto di Dorian Gray) o la perdita dell'immagine e dell'ombra, che invece costituisce un passaggio di rafforzamento, come mostra il passaggio “si diventa indipendenti e portatori di una forza superiore” [Rank, ibidem].

Attingendo grandemente al proprio allievo e grazie alla sua capacità di sintesi, Freud sistematizza il concetto di narcisismo e lo divulga. I punti della sua elaborazione teoretica sono costituiti da due testi principali, Tre Saggi sulla Sessualità del 1905, che possiamo considerare una premessa concettuale, e Introduzione al Narcisismo del 1914. Nell'ultimo scritto, Freud crea una distinzione all'interno del tema generale del narcisismo, identificandone una forma primaria e una secondaria; le due varianti mostrano una successione temporale - di qui il collegamento con il modello evolutivo - e in particolare il narcisismo primario si realizza come un investimento libidico verso un Io alienato, reso oggetto di amore, mentre il secondario costituisce un ritiro progressivo della stessa libido dagli oggetti esterni all'Io. È in questa seconda variante che possiamo intravedere gli elementi patogeni del narcisismo, nella misura in cui il movimento libidico è quello del ritiro, in seguito ad esempio alla perdita dell'oggetto libidico esterno; nella forma primaria, invece, il narcisismo è costitutivo di una base sicura, di una quota di fiducia da cui deriveranno i successivi investimenti oggettuali [Lingiardi e Madeddu, 2002].

Sulla stessa scia di dibattito si collocarono Abraham, che nel 1919 definì il narcisismo “una particolare forma di resistenza al trattamento psicoanalitico”, e Jones, che nel 1913 introdusse il complesso di Dio descrivendo il narcisismo come parte di una personalità, organizzata in tratti distintivi. Negli anni ’30 la Klein oscurò il dibattito, che rimase in parte silente fino alle rivitalizzazioni ad opera degli psicoanalisti post-freudiani negli anni ’70; l’autrice negò l’idea che il narcisismo potesse essere una condizione in cui l’oggetto fosse del tutto assente [Elder, 1986], spostando il concetto sul versante dell’onnipotenza del pensiero [Segall e Bell, 1991].

Continuando nella rassegna, Rosenfeld radunò elementi a partire dal 1971 della teoria kleiniana fondendoli con alcune constatazioni contenute nei lavori precedenti di Hartmann, dove il narcisismo veniva collegato all’autodistruzione; in particolare l’autore desume dall’esperienza clinica che nei pazienti convivono aspetti distruttivi e libidici, ma che gli impulsi varino a seconda che a predominare sia il senso di umiliazione dall’oggetto esterno o di invidia [Steiner, 2008]. Negli stessi anni Meltzer descrisse il narcisismo come una forma di confusione tra bene e male, con le parti cattive del sé pronte a offrire un rifugio dal dolore del bambino [1974].

Sempre l’autore americano distinse due correnti all’interno della Psicoanalisi, quella che faceva del narcisismo il proprio centro e quella che invece dava rilevanza assoluta alle relazioni oggettuali: due “battaglioni nella notte” schierati l’uno contro l’altro, scriveva nel 1974. Kohut sembra idealmente prendere le redini di questo argomento, diffuso in tutta la Società Psicoanalitica, e governarlo senza bisogno di contrapposizioni, tanto da attuarne una sintesi nell’idea che lo sviluppo libidico possa seguire alternativamente due linee, una narcisistica e una oggettuale [1971]. In particolare, secondo l’autore qualora i genitori fossero stati poco empatici, supportivi o rigidi nei confronti del bambino, provocherebbero lo stallo a un Sé grandioso arcaico, da cui nascerebbe il bisogno nelle relazioni (anche transferali) di essere rispecchiati e ammirati o viceversa di provare ammirazione e idealizzare gli altri.

È importante sottolineare come in Kohut torni l’idea del narcisismo come forma non necessariamente patologica, nella misura in cui confermare e riflettere siano legati all’oggetto-sé materno e quella di idealizzare all’oggetto-sé paterno [Loverso, 2012].

Anche per Kernberg le relazioni oggettuali definiscono come gli esseri umani siano sempre in contatto con gli altri e che quindi le esperienze di vita vadano a incidere sulla loro qualità di vita che determina salute o malattia mentale [Clarkin, Yeomans e Kernberg, 2006]. Le esperienze sono quindi in grado di dare un indirizzo all’investimento libidico, che può riguardare il Sé (l’autostima sarebbe un’evidenza di questo movimento), ma anche strutture patologiche del Sé come il Sé grandioso [Kernberg, 1974].

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