LA CONFUSIONE TRA PREVENZIONE E CURA

La definizione che l'Istituto Superiore di Sanità dà di prevenzione è di una serie di attività mirate a promuovere e conservare lo stato di salute; "promozione" e "conservazione" sono quindi vettori fondamentali per dare senso alla prevenzione, ma non solo: nell'idea che le definizioni circoscrivano non solo il dominio di ciò che qualcosa è, ma anche di ciò che qualcosa non è, immaginiamo che il differenziale più grande del significato di prevenzione sia rispetto al concetto di cura: viene da sé che, in rapporto alla prevenzione, la cura si definisca come insieme di azioni tese a ristabilire un livello di salute che per qualche ragione è andato perso. Pertanto prevenzione è prevenzione, cura è cura, prevenzione non è cura e cura non è prevenzione. 



Tuttavia, come spesso accade, i termini possono avere delle affinità, in quanto alcuni dei tratti che li contraddistinguono sono in comune; nel caso di cui ci stiamo occupando qui, prevenzione e cura condividono uno stesso orizzonte connotativo che è quello sanitario, e lo stesso riferimento forte al tema della malattia. Ma è doveroso andare oltre queste somiglianze di superficie. 

In quanto attività, sia la prevenzione che la cura trovano il proprio punto di ancoraggio, il nucleo definitorio, nella prassi: che nel caso della prevenzione si configura come assunzione di comportamenti tesi a evitare che una malattia si manifesti (mangiare sano può prevenire l'obesità, fare attività sportiva le malattie cardiovascolari), mentre in quello della cura consiste nel l'assunzione di un farmaco, oltre che di comportamenti contenitivi di una eventuale recrudescenza dello stato morboso. 

Alla luce di quanto detto, come dovremmo considerare l'assunzione di un farmaco antistaminico per evitare di sviluppare una reazione allergica al polline primaverile? Potremmo pensare che il prendere un farmaco previamente rispetto all'insorgere del sintomo possa qualificare l'antistaminico come farmaco preventivo, ma così facendo non stiamo considerando che non stiamo agendo nella direzione della conservazione di uno stato di salute, bensì stiamo sottoponendo l'organismo a un processo che lo renda meno esposto a un esito sgradevole grazie all'opera di contenimento di un farmaco; non è un caso che venga considerata una terapia desensibilizzante, e non una forma di prevenzione. 

Si è assistito a un vero e proprio spostamento sul piano semantico del baricentro della definizione di "prevenzione" e di "cura"; e dato che le definizioni costruite per dare corpo agli oggetti del senso comune non disdegnano, anzi ne risultano particolarmente attratte, questioni ideologiche, possiamo dire che negli ultimi anni vi è stato un importante sommovimento che ha coinvolto mondo della conoscenza e valori. Laddove si rompano le barriere che delimitano i campi semantici, però, si ha un effetto che non si potrebbe meglio definire che con il termine "confusione".

Vi sono casi che, più del farmaco antistaminico, possono mettere a dura prova la tenuta delle definizioni di prevenzione di cura, uno di questi è quello degli psicofarmaci. Tra le persone che hanno la sfortuna di assistere alle mie lezioni, ce n'è stata una molto brillante, gran lavoratrice, che mi ha raccontato di essere particolarmente sotto stress per via di una promozione al lavoro; in particolare viveva con grande disagio il fatto di essere spesso in viaggio, di coprire a volte in una stessa settimana distanze pari a metà della circonferenza terrestre. Quando le chiesi come facesse fronte a tali ritmi, mi disse che aveva iniziato ad assumere del Lexotan all'occorrenza di un lungo viaggio, accompagnandolo con un bicchiere di prosecco a stomaco vuoto in modo da prolungarne l'effetto. La domanda è: come dobbiamo considerare questo comportamento? Prevenzione o cura? 


La studentessa assume un farmaco prima dell'episodio morboso, la crisi di ansia, e così facendo effettivamente evita che questo si manifesti; tuttavia non può essere considerata un'azione preventiva, perché non viene conservato attivamente uno stato di salute, bensì evitato, per via farmacologica, un sintomo che quasi certamente si manifesterebbe. In questo caso, pertanto, la distinzione pragmatica tra cura e prevenzione viene a stabilirsi sulla base della regolarità dell'assunzione: la prima equivale a un'assunzione normata, la seconda a un'assunzione episodica. 


Un altro caso, che sta al margine delle definizioni e le sottopone a un discreto stress-test, è quello della profilassi pre-esposizione, ossia dell'assunzione di un farmaco, prima di un rapporto sessuale, al fine di non contrarre il virus dell'HIV. Si tratta di un approccio proposto negli Stati Uniti, in Francia e in Inghilterra, della cui diffusione si discute anche in Italia, con non poche polemiche. In particolare citiamo la posizione di una parte della comunità gay maschile sieropositiva che si batte per la sua liberalizzazione, al fine di poter offrire un'opportunità a quelle situazioni in cui è difficile ricorrere all'uso del preservativo, come il cosiddetto chem-sex, ossia avere rapporti sessuali in gruppo sotto l'effetto di droghe chimiche. 


Ecco un bel caso di liminalità concettuale, dove da un lato viene meno la conditio che distingue la cura dalla prevenzione, ossia la presenza di uno stato morboso latente (allergia, disturbo d'ansia) pronto a manifestarsi sul piano sintomatico, dall'altro non si può parlare di prevenzione perché non vi è un rischio strutturale, ma legato a comportamenti deliberatamente assunti. 


È quasi emblematico che in una simile situazione lo stesso farmaco utilizzato nella terapia anti-retrovirale delle persone sieropositive si sposti a essere utilizzato come presidio preventivo, contrassegnando una rottura dell'argine semantico tra i due che va tutta a favore della medicalizzazione della prevenzione, in contrasto con le indicazioni che arrivano da organismi quali l'Organizzazione Mondiale della Sanità, che assegnano la priorità alla prevenzione. È simile, lo spostamento, a quello che si ha avuto nel caso della gestione dei bambini con ADHD negli Stati Uniti, dove piuttosto che propendere verso una presa in carico educativa del problema si è preferito agire su una leva farmacologica, somministrando molecole potenti come quelle del Ritalin che hanno avuto l'effetto importante di far ricadere il tema della gestione di un comportamento dirompente nel campo della Medicina, e non della Pedagogia o della Psicologia. 


Sarebbe miope ignorare le influenze economiche in questo processo psico-socio-politico: dovendo da un lato ampliare il campo della prevenzione, ma dall'altro mantenere un margine di profitto accettabile, la soluzione è medicalizzare la prevenzione, anticipando l'assunzione di un farmaco alla fase del sospetto (e non quello della manifestazione della malattia). Di fronte alla confusione generata da simili spinte macro-sociali, questo faccia da discrimine: se si tratta di un comportamento educabile, e se attraverso l'educazione si arriva a preservare  uno stato di salute, non si può considerare il farmaco come presidio di prevenzione ma come anticipazione della cura. 


Questo obbligherebbe a un altro spostamento, che non investirebbe in modo diretto i consumatori ma la comunità scientifica, che dovrebbe - finalmente - trovare dei codici comuni per garantire un dialogo tra Scienze della Vita, Scienze Sociali e Scienze Umane. È assurdo che discipline come la Psicologia e la Sociologia siano chiamate a occuparsi di prevenzione, ma a patto che ai tavoli di lavoro siedano in quanto quota minoritaria e minoranza silenziosa. Fenomeni come la PrEP, la diffusione degli psicofarmaci e il Ritalin negli Stati Uniti raccontano la triste verità di come le relazioni di potere tra ambiti disciplinari e lo sbilanciamento tra bisogni economici e bisogni sociali condizionino, lungo una filiera di influenze dal macro al micro, le singole scelte individuali di medici, persone e manager di Case Farmaceutiche.

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