LO FACCIO IN FARMACIA
Articolo apparso sul magazine Real Life di luglio 2017.
TEST HIV? LO FACCIO IN FARMACIA
Veniamo subito al nocciolo della questione: il primo dicembre 2016 anche in Italia è stato introdotto l’autotest per l’HIV, indicato negli Stati Uniti come HIVST (HIV Self Test), un presidio che, assieme al HIVC&T (HIV Counselling & Testing) e al RDT (Rapid Diagnosing Test) fa parte delle HIVTS (HIV Testing Strategies); in un panorama che va a proporre sempre di più approcci tailored, fatti su misura rispetto alle esigenze delle persone, possiamo considerare l’autotest come un’interessante sfida, per far emergere il bacino di persone inconsapevoli di essere sieropositive. Ma consideriamo prima di tutto il processo, nell’idea - tipica per le Scienze Sociali - che i passaggi tramite cui un fenomeno si costruisce sono essenziali a definirne il senso.
Benché si sia trattato di un’iniziativa privata, nata sul mercato e a esso destinata, ha assunto sin da subito i connotati di una policy, in quanto frutto di un processo decisionale che ha avuto effettivamente una ricaduta su un numero piuttosto ampio di persone: circa 20 mila da dicembre a maggio, con un passo costante di circa 3000 acquisti al mese e un ordine da parte delle farmacie che ha raggiunto quasi i 50 mila pezzi. Inoltre, l’azienda produttrice si è affiancata a un Centro Studi indipendente per pianificare il lancio e monitorare le ricadute sociali del prodotto. Nell’ottica dell’Economia del Benessere che contraddistingue il pensiero dell’economista Pigou, questo genere di policy nasce da attori liberi del mercato ed è in grado di sollecitare le istituzioni, che retroagiscono dopo un delay temporale regolamentando il fenomeno. In quanto policy, dovrebbe realizzarsi per principio attraverso un processo che veda - almeno - l’identificazione del problema rispetto al quale si intende proporre una soluzione e la valutazione degli esiti in termini di impatto.
Si parla prima di tutto di prevenzione, ma non di una prevenzione qualunque. Si parla della prevenzione da quello che, ancora oggi - ancora oggi - viene considerata una delle piaghe della fine del ‘900. E, a dimostrare che la paura per il contagio sia ancora presente e viva nel tessuto sociale attuale, vi sono numerosi contributi in letteratura scientifica da parte della Psicologia Clinica, dove si parla di HIV phobia [Smith e Matthews, 2008], di AIDS hypochondria [Wirth, 2006] e si è reso noto il tema degli worried well [Vito et al., 2006], ossia di quelle persone che, pur essendo completamente lontane da ogni possibilità di aver contratto il virus ed essendo risultate negative al test, sono assolutamente sicure di essersi contagiate; se consideriamo poi l’evidenza empirica circa il fatto che una base ansiosa, soprattutto nei giovani, risulta correlata all’assunzione di comportamenti rischiosi per la trasmissione [O’ Cleirigh, 2013], vediamo come si configura un pericoloso cortocircuito, in cui sembra davvero che si renda necessario, per il bene di tutti, tornare a mantenere un po’ la calma. Parliamo quindi di prevenzione dal contagio HIV, ma cerchiamo di farlo bene, in modo scientifico, e lontani da ogni contaminazione di carattere ideologico e da ogni slancio unicamente valoriale.
Benché non sia ancora considerato in modo unanime un presidio di prevenzione, possiamo pensare che il test per l’HIV sia a tutti gli effetti una misura in tal senso, dal momento che effettuarlo consente di adottare comportamenti tesi a mantenere il proprio stato di salute, indipendentemente dal fatto che l’esito sia positivo o negativo: nel primo caso, infatti, va da sé che la conoscenza del proprio stato sierologico consenta di entrare nel percorso di presa in carico da parte della Sanità Pubblica, mentre nel secondo si ha ragione di pensare che il solo fatto di aver rotto il ghiaccio con il test abbia una ricaduta positiva sui comportamenti adottati [Toscano et al., 2014]. Su questo modo di intendere il test HIV, come uno dei tanti strumenti di prevenzione piuttosto che come mezzo per fare diagnosi, gli operatori, sia sanitari che della community LGBT, sono in disaccordo, e lo dimostra il modo spesso diametralmente opposto di leggere lo stesso fenomeno: se a fronte di una sessione di test andata in bianco, ossia priva di reattivi, i sostenitori della sola funzione diagnostica si dichiareranno delusi, e penseranno di aver sprecato delle risorse, chi invece tiene in considerazione gli effetti indiretti che il test ha sui comportamenti preventivi delle persone avrà bene in mente la mole di benefici prodotti.
Si rende ancora più evidente il valore del test HIV se consideriamo l’annoso problema del sommerso, ossia di quel bacino di persone sieropositive ma inconsapevoli di esserlo; si tratta di un insieme piuttosto nutrito di persone, le stime della S.I.M.I.T. del 2016 parlano di circa 20-30 mila persone, rispetto alle quali è doveroso porsi alcune domande importanti: Chi sono?, da intendersi nella duplice accezione sia dell’identificazione di tali persone a rischio, sia della tipizzazione in termini di caratteristiche mediane. Si è usi dire che la popolazione MSM sia al momento quella su cui concentrarsi maggiormente rispetto al contagio da HIV, in quanto circa il 40% delle nuove infezioni avviene proprio tramite rapporti sessuali omosessuali; tuttavia una simile affermazione non tiene conto che le circa 3500 nuove infezioni annue sono un’incidenza che si riferisce solo ai test reattivi, e che non è affatto detto che il sommerso abbia le stesse caratteristiche delle persone che scelgono di effettuare il test; può darsi che quel bacino ancora sconosciuto abbia caratteristiche inedite. La seconda domanda rilevante è: Come si comportano? E in questo senso sarà importante il contributo della Ricerca Sociale, oggi meno riconosciuta di ieri nel suo potenziale euristico. La terza e ultima domanda è: Perché non si testano? Nelle Scienze Sociali, ogni volta che si vede da un lato un’offerta e dall’altra un bisogno che non si incontrano viene ipotizzata l’esistenza di un argine invisibile; nel caso del test HIV ospedaliero, uno studio condotto in Europa da Yazdanpanah e collaboratori [2010] elenca tra i motivi che concorrono a dare corpo alla barriera:
- L’erronea percezione di essere a basso rischio (spesso si ritiene che sia sufficiente conoscere le persone con cui si hanno rapporti sessuali occasionali per potersi sentire al sicuro dal contagio);
- La paura del virus (cui abbiamo già accennato);
- La paura di essere scoperti (in questo senso le attese comuni negli ambulatori potrebbero essere scoraggianti per persone sensibili alla privacy);
- L’accessibilità dei Servizi Sanitari (gli orari ambulatoriali potrebbero essere proibitivi).
Per quanto riguarda la valutazione di impatto, ci muoviamo ancora all’interno di quello che Kuhn chiamava il contesto della scoperta, nel quale le indagini scientifiche hanno carattere prevalentemente qualitativo e servono prevalentemente a imbastire un percorso conoscitivo. Sicuramente l’autotest, per il fatto fondamentale che affidi al singolo buona parte della gestione del processo di testing, è in grado di produrre un certo stress alle strutture di intervento esistenti, sia a livello di Servizio Sanitario che di community; entrambi i tipi di attori si trovano a doversi in parte riorganizzare, per poter potenziare la rete già esistente ed estenderla capillarmente ai territori, includendo i farmacisti che sono, di fatto, nuovi attori nel panorama dell’offerta di prevenzione. L’indicazione che può arrivare dalla presente analisi dell’immissione dell’autotest è di continuare a investire - energie e risorse economiche - per combattere lo stigma, il solo vero responsabile delle barriere che tengono lontane le persone dal prendersi cura di sé e degli altri.