QUELLA COSA FATTA IN VIA CAVEZZALI: NON SERVIRÀ A MOLTO
Via Cavezzali è un luogo sicuramente noto a chi viva nel quartiere di via Padova a Milano, e tristemente lo è per via del degrado e della delinquenza che vi albergano. Ma, come spesso avviene nella zona (lo stiamo registrando nel corso delle interviste che stiamo svolgendo nel corso di Itinerari di Esistenza - Simboli ed Emozioni in via Padova), non si tratta che di un’isola, di un fenomeno circoscritto, che si manifesta anche in altri punti di via Padova e delle vie traverse ma in coesistenza con altrettante isole felici. La frammentazione tipica della Postmpdernità ha quindi portato a dissolvere quella struttura prevedibile delle città, dove il centro si distingueva dalla periferia su base urbanistica ma anche socio-economica; via Padova è insieme un luogo di villette di campagna, di cascine diroccate, di condomini borghesi, di parchi curati, di giardini incolti…e al suo interno sorge anche questo piccolo quartiere ZEN, questa Scampia in miniatura.
Le Scienze Sociali conoscono da tempo gli effetti del degrado sui comportamenti delle persone. Nel 1969 Philip Zimbardo compì un esperimento sul campo piuttosto semplice: lasciò una macchina con il cofano aperto in due luoghi differenti per livello medio socio-economico degli abitanti, il Bronx e Palo Alto, per vedere se il fatto di essere in un luogo mediamente povero o mediamente ricco facesse comportare le persone in maniera diversa. Risultò che nel giro di poche ore l’auto parcheggiata a New York venne totalmente saccheggiata, a differenza dell’altra che invece rimase intonsa; una cosa interessante, è che i predoni erano quasi tutte persone comuni, ben vestite, non certo visibili delinquenti. Prima conclusione: il comportamento delle persone è influenzato dal clima sociale della zona e non solo dal proprio status.
Introdusse poi una variante, nell’esperimento: ruppe un vetro dell’auto parcheggiata a Palo Alto; il risultato fu che, nel giro di poco, anche quella venne saccheggiata e devastata; un po’ per furto (fu rimossa la batteria), un po’ per gusto (alcuni la vandalizzarono per diletto). Seconda conclusione: le persone (tutte le persone, indipendentemente dal reddito e dall’educazione) tendono a commettere con più facilità piccoli reati quando un corso di degrado e incuria è già avviato.
Il condominio di via Cavezzali è attraversato dalla storia dell’edilizia tra gli anni ‘80 e ‘90: da residence per yuppie rampanti, è stato negli anni svenduto per via di un cambiamento culturale che ha portato le persone a non essere più disposte a spendere grandi cifre per sostare in piccoli moduli abitativi, oltre, naturalmente, allo scoppio della bolla immobiliare del 1992, provocando un netto calo nelle entrate e quindi la svendita.
Questo dato, unitamente all’incremento delle migrazioni e all’endemica impreparazione delle istituzioni, troppo appesantite per poter predisporre risposte rapide e ben concertate ai cambiamenti sociali in atto, hanno portato alla situazione attuale, che più che di criminalità (un problema comunque non trascurabile) può dirsi di fortissimo, esacerbato conflitto sociale: in cui gli attori sono però molteplici. Da un lato alcuni migranti, soprattutto albanesi, che hanno trovato in questo luogo in cui la legge è sospesa un humus ideale per intraprendere attività redditizie quali ricettazione e spaccio, e che tramite l’instaurazione di un clima di tensione e minaccia hanno sottratto gli alloggi ai legittimi proprietari; dall’altro i residenti regolari, che vivono asserragliati e trovano nell’omertà la migliore scappatoia a tutti i problemi; e poi c’è la rete dei disperati, ossia di chi chiede in affitto gli appartamenti gestiti dal racket ma che difficilmente rimarrà cliente, dato che le organizzazioni criminali, anche piccole, si sa, sono rapide nell’adattarsi alle esigenze, e quindi oltre alla casa forniscono anche un modo per sbarcare il lunario, commissionando qualche lavoretto sporco; e, infine, gli italianissimi ruoli apicali, che guadagnano da simili attività e che, in fondo, vivono in equilibrio con il resto dell’ecosistema: vige infatti un patto tacito di correttezza, dove da un lato si portano avanti indisturbati le proprie attività, e dall’altro si garantisce un controllo sociale sul fatto che ciò che avviene all’interno del complesso non sarà troppo esagerato.
All’inizio di aprile 2018 il condominio di via Cavezzali 11 è stato oggetto di un blitz piuttosto importante dell’esercito e della polizia, durante il quale hanno portato in questura quasi 50 persone e verificato la situazione in circa la metà degli appartamenti. Nell’immaginario collettivo questo ha generato sollievo, perché effettivamente ha un effetto molto tranquillizzante vedere che quell’entità che le persone chiamano “le istituzioni” (assumendo che siano tutte unite e allo stesso livello) riesca ad agire in modo tempestivo ed efficace.
Tuttavia, rimane aperto il capitolo del “dopo di noi”, ossia quali azioni verranno fatte in seguito per dare un senso di continuità. Se si è pensato a un progetto di medio termine, se chi ha fatto da regia alle azioni di sgombero ha interpretato la natura complessa (dove "complessa" non significa "irrisolvibile", ma solo che va affrontata con competenza) del fenomeno, ci si aspetta che questo blitz avvenga quantomeno in sinergia con le azioni predisposte nell'ambito della progettualità che il Comune sta sviluppando per altri due caseggiati della zona che vivono problemi simili, quelli di via Arquà e di via Clitumno.
Introdusse poi una variante, nell’esperimento: ruppe un vetro dell’auto parcheggiata a Palo Alto; il risultato fu che, nel giro di poco, anche quella venne saccheggiata e devastata; un po’ per furto (fu rimossa la batteria), un po’ per gusto (alcuni la vandalizzarono per diletto). Seconda conclusione: le persone (tutte le persone, indipendentemente dal reddito e dall’educazione) tendono a commettere con più facilità piccoli reati quando un corso di degrado e incuria è già avviato.
Credits: Il Giornale |
Il condominio di via Cavezzali è attraversato dalla storia dell’edilizia tra gli anni ‘80 e ‘90: da residence per yuppie rampanti, è stato negli anni svenduto per via di un cambiamento culturale che ha portato le persone a non essere più disposte a spendere grandi cifre per sostare in piccoli moduli abitativi, oltre, naturalmente, allo scoppio della bolla immobiliare del 1992, provocando un netto calo nelle entrate e quindi la svendita.
Questo dato, unitamente all’incremento delle migrazioni e all’endemica impreparazione delle istituzioni, troppo appesantite per poter predisporre risposte rapide e ben concertate ai cambiamenti sociali in atto, hanno portato alla situazione attuale, che più che di criminalità (un problema comunque non trascurabile) può dirsi di fortissimo, esacerbato conflitto sociale: in cui gli attori sono però molteplici. Da un lato alcuni migranti, soprattutto albanesi, che hanno trovato in questo luogo in cui la legge è sospesa un humus ideale per intraprendere attività redditizie quali ricettazione e spaccio, e che tramite l’instaurazione di un clima di tensione e minaccia hanno sottratto gli alloggi ai legittimi proprietari; dall’altro i residenti regolari, che vivono asserragliati e trovano nell’omertà la migliore scappatoia a tutti i problemi; e poi c’è la rete dei disperati, ossia di chi chiede in affitto gli appartamenti gestiti dal racket ma che difficilmente rimarrà cliente, dato che le organizzazioni criminali, anche piccole, si sa, sono rapide nell’adattarsi alle esigenze, e quindi oltre alla casa forniscono anche un modo per sbarcare il lunario, commissionando qualche lavoretto sporco; e, infine, gli italianissimi ruoli apicali, che guadagnano da simili attività e che, in fondo, vivono in equilibrio con il resto dell’ecosistema: vige infatti un patto tacito di correttezza, dove da un lato si portano avanti indisturbati le proprie attività, e dall’altro si garantisce un controllo sociale sul fatto che ciò che avviene all’interno del complesso non sarà troppo esagerato.
All’inizio di aprile 2018 il condominio di via Cavezzali 11 è stato oggetto di un blitz piuttosto importante dell’esercito e della polizia, durante il quale hanno portato in questura quasi 50 persone e verificato la situazione in circa la metà degli appartamenti. Nell’immaginario collettivo questo ha generato sollievo, perché effettivamente ha un effetto molto tranquillizzante vedere che quell’entità che le persone chiamano “le istituzioni” (assumendo che siano tutte unite e allo stesso livello) riesca ad agire in modo tempestivo ed efficace.
Tuttavia, rimane aperto il capitolo del “dopo di noi”, ossia quali azioni verranno fatte in seguito per dare un senso di continuità. Se si è pensato a un progetto di medio termine, se chi ha fatto da regia alle azioni di sgombero ha interpretato la natura complessa (dove "complessa" non significa "irrisolvibile", ma solo che va affrontata con competenza) del fenomeno, ci si aspetta che questo blitz avvenga quantomeno in sinergia con le azioni predisposte nell'ambito della progettualità che il Comune sta sviluppando per altri due caseggiati della zona che vivono problemi simili, quelli di via Arquà e di via Clitumno.
In caso contrario, possiamo considerarlo come una boutade, che avrà senz'altro il pregio di mettere in luce un problema, ma che - se non risolto in modo efficace - aggiungerà un quantum di sfiducia nelle istituzioni alla disillusione già esistente, e sarà un danno. La soluzione?
Il lavoro sociale non ha mai soluzioni prêt-à-porter, vanno valutate caso per caso, allo stesso modo in cui un farmaco non è detto che agisca bene in tutti gli organismi. Tuttavia, alcune direttrici fondamentali esistono, e andrebbero rispettate:
- organicità degli interventi - se non si è fatto un piano di medio periodo è meglio lasciar perdere, e se qualcuno pensa "Intanto facciamo qualcosa, poi si vedrà" be'… sbaglia, non sa come funzionano i processi sociali;
- avere una visione - le azioni non possono essere disarticolate, ciascuna con il proprio metodo, le proprie variabili, ma devono essere parte di una visione condivisa, negoziata; su come uscire da problemi simili, è chiaro, non si è ancora realizzata la capacità di integrare una strategia comune a livello politico, e questo ricade sui fenomeni stessi;
- riconoscere l'esperienza - bisogna saper valutare la capacità di incidere efficacemente delle persone cui si affida la gestione di progetti così complessi, mentre molto spesso la loro selezione è essa stessa un processo politico e non tecnico.
Al momento l'entusiasmo è comunque alto; un bravo amministratore saprà cogliere l'attimo.