CONTINGENZE VIRALI

Sono cresciuto con l’idea che un virus un giorno ci avrebbe distrutti tutti, moralmente quantomeno; sono nato negli anni ‘80, quando fu scoperto l’HIV, quando fu costruito il discorso che lo vedeva come punizione per certi comportamenti troppo libertini, quando si iniziò a realizzare che il vero spettro, il vero nemico invisibile non era ideologico, ma microbiologico.




Il riferimento culturale non sarà dei migliori, denoterà sicuramente un tratto tamarro della mia adolescenza, ma tant’è; nel 1996 gli Articolo 31 cantavano: «Il sesso virtuale è più salubre in quanto che c'è / Un virus che si prende tramite il sudore / E in 90 ore si muore / L'HIV in confronto sembra un raffreddore / È un esperimento bellico sfuggito / E il risultato è che nessuno fa l'amore», fondando nella mia generazione l’idea che i processi giganteschi in atto in quegli anni stavano mettendo un’enorme ipoteca sul futuro.

Poco tempo dopo ha preso piede un genere cinematografico denominato survivor, in cui si racconta di persone sopravvissute a disastri epocali, in alcuni casi legati a contagi virali arrivati a distruggere l’umanità; come dimenticare il risveglio di Jim in 28 Giorni Dopo e la sua passeggiata in una Londra totalmente deserta? E ancora la letteratura, con L’Ombra dello Scorpione, del 1983, o The Gemini Virus, del 2012, che ripropongono lo stesso copione: un virus, sfuggito al controllo di un laboratorio che lo ha sintetizzato, inizia a diffondersi in modo subdolo, sottovalutato dai governi, fino a decimare o sterminare la popolazione; questo è lo spazio in cui prendono la scena gli eroi, immancabili e necessari. Insomma, è da più di trent’anni che l’immagine del futuro è affidata alla distopia medica e all’idea di una fine orribile. Non è un caso, a mio avviso, che in questi giorni, in studio, un ragazzo giovanissimo, nato nel nuovo millennio, che mi ha rivelato «È da quando sono piccolo che ho paura del futuro».

Prima l’HIV, poi la SARS, ora il nuovo Coronavirus: tutti parte dello stesso scenario, che ne porta le direttrici di senso ben al di là del perimetro della Medicina. Non riesco a non intravedere in questo discorso gli stessi architravi di quanto è stato detto da alcuni interpreti della modernità, in particolare Giddens e Beck. Gli autori partono da una critica della globalizzazione, un termine che ha avuto nel suo picco di diffusione forse anche uno svuotamento di senso, ma che dalle crisi economiche del 2008 e del 2011 in poi ha recuperato pienezza. 

Il primo ci parla di Modernità Radicale, che viene rappresentata in modo particolare dal concetto di disaggregazione, secondo la quale è possibile che forme, strutture di relazione viaggino nel tempo e nello spazio indipendentemente dai contesti; insomma, la vitalità, il contagio sono una cifra della contemporaneità, e a dimostrarlo vi sono non tanto gli irrisori numeri dell’epidemiologia del Coronavirus, quanto il giustificato spavento che provoca l’idea che i fenomeni possano spostarsi così velocemente da una parte all’altra del mondo. Il secondo denuncia il rischio come chiave interpretativa del nostro tempo, rilevando come a questo si associ un senso di profonda sfiducia circa le possibilità del controllo dei fenomeni globali; che quindi divengono fati, inevitabili, rispetto ai quali si può solo dire “Spero non capiti a me”. 

Oltre al dato contemporaneo, il fenomeno del Coronavirus si trascina dietro anche considerazioni più antiche, di carattere antropologico e psicologico, che si riversano in quella che si potrebbe definire psicologia del contagio. È davvero difficile immaginarsi che i virus sono, più o meno, filamenti di codice genetico in viaggio da organismo a organismo, che hanno percentuali spesso basse di mortalità, e che possono essere sconfitti con banali accorgimenti come lavarsi bene le mani o indossare un preservativo; che non vi è modo per inferire a colpo d’occhio la presenza di un virus finché questo è asintomatico, e che evitare i ristoranti cinesi o, peggio ancora, evitare i cinesi, sono comportamenti privi di basi scientifiche.

Come viene colmato questo deficit di rappresentazione? Attingendo a un patrimonio di base, archetipico, che ritroviamo nell’esotismo o nella psicopatologia. Prendiamo il concetto di mana, ossia l’essenza spirituale che viaggia attraverso il contatto, studiata dagli antropologi in relazione al concetto di sacro e di proibito: il capo tribù è l’individuo con maggiore carica spirituale, e la trasmette agli oggetti in suo possesso proprio tramite il contatto, a testimoniare l’esistenza di una sorta di istinto umano a concepire il contagio ben prima della nascita della microbiologia. Allo stesso modo, è noto che in alcuni disturbi ossessivo-compulsivi si assuma come contenuto del pensiero ossessivo proprio il contagio, motivo per cui il lavaggio ripetuto delle mani diviene necessario per eliminare temporaneamente la tensione; e non si tratta solo di lavare via i microbi, ma i fluidi che, tramite il contatto, vengono passati da persona a persona.

Sono simili premesse a rendere difficile per l’uomo della strada assimilare quanto si sta cercando di rendere noto e chiaro, da Walter Ricciardi a Ilaria Capua, ossia che non c’è bisogno di allarmarsi ma solo di essere un po’ accorti nel, per esempio, lavarsi le mani dopo aver toccato i sostegni dei mezzi pubblici. 

Eccoci, quindi. La sindrome para-influenzale da Coronavirus ci ha lanciati nell’apice della nostra modernità radicale e delle nostre ossessioni. 

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