UNA LEZIONE DA "LA PESTE" SU SALUTE PUBBLICA E CABINE DI REGIA

La peste di Albert Camus, riassunto e commento - Studia Rapido


Avete mai notato che ne La Peste di Camus i personaggi principali sono variegati e diversi? Al di fuori del valore metaforico del romanzo, che parla nascostamente dell'instaurazione del Nazionalsocialismo, quello che potremmo definire il nucleo di intervento di Orano è composto da: un medico (Bernard Rieux), che gira casa per casa; un insolito cronista (Jean Tarrou), che scrive su un taccuino la cronaca dell'epidemia e svela caratteristiche del contagio poco evidenti; un giornalista (Raymond Rambert), che, seppur animato da forti desideri di fuga, decide di battersi e aiutare; un altro medico (Castel), che cerca e sperimenta un rimedio contro il morbo; un giudice (Othon), che rimane inizialmente indifferente alla malattia, ma poi si dà da fare. Traslando tutto questo nella contemporaneità, si può dire che nel romanzo intervengono contro l'epidemia: clinica, epidemiologia, volontariato, ricerca, politica.



Nel migliore dei mondi possibili, una policy di Salute Pubblica è disegnata ricalcando le caratteristiche del virus: come si diffonde e quanto velocemente, quanto tempo rimane asintomatico, come evolve la patologia, quali categorie sociali sono più esposte, come agisce la cura, qual è la reale possibilità di un vaccino, quali sono i comportamenti prescritti per prevenire il contagio ecc. Si tratta di una grande moltitudine di aspetti, che rendono la policy complessa e sfaccettata e necessitano inderogabilmente di una squadra multidisciplinare.

“Nel migliore dei mondi possibili, una policy di Salute Pubblica è disegnata ricalcando le caratteristiche del virus.”


Proviamo a fare un paragone tra due virus assai diversi, ma ugualmente capaci di seminare il panico tra le persone: HIV e SARS-CoV-2. Il primo, responsabile (se non curato) di provocare una sindrome da immunodeficienza acquisita, nota come AIDS, presenta le seguenti caratteristiche, che suggeriscono altrettanti punti di attenzione:
  • HIV si trasmette attraverso fluidi corporei quali sperma, liquidi vaginali e sangue: a rischio sono i rapporti sessuali e gli scambi di sangue con persone positive a HIV (con carica virale elevata, come avviene agli inizi del contagio o alla conclama zio e del virus), ed è per questo che sono state fatte numerose campagne di sensibilizzazione all'uso del preservativo e del femidom soprattutto nei rapporti occasionali e vengono monitorati in modo stringente i donatori di sangue;
  • HIV è un virus fragile, sopravvive molto poco al di fuori del corpo, e questo lo rende poco contagioso, fatto salvo delle vie di contagio del punto precedente: non è necessario alcun isolamento, bensì identificare segmenti di popolazione con comportamenti o condizioni esposti a un rischio maggiore (es. PWID, people who inject drugs) e promuovere comportamenti virtuosi, come l'uso personale di siringhe, o sensibilizzare al preservativo chi fa del sesso un lavoro;
  • HIV manifesta alcuni sintomi nella fase iniziale del contagio, in cui genera una condizione detta "sindrome simil-mononucleosica", cioè uno stato simile a quello dell'infezione del meno pericoloso virus EBV (contraddistinto da stanchezza, febbre lieve, con la sola distinzione del rush cutaneo, tipico del contagio da HIV), dopodiché rimane latente, visibile solo tramite esame specifico: in termini di politiche, significa favorire il più possibile l'accesso al test, rendendolo gratuito, possibile a orari comodi per chi lavora, anonimo per sfuggire allo stigma, fino a renderlo disponibile in farmacia;
  • HIV rimane latente, se non curato, per circa dieci anni, dopodiché evolve in AIDS; di nuovo, rimane strategico favorire il test, e in tal senso vanno lette quelle iniziative di avvicinamento del test alla popolazione comune, come nel caso dei checkpoint gestiti da associazioni di volontari, dove chi vuole può fare un test gratuito e anonimo;
  • la cura per HIV non esiste, è però possibile cronicizzare l'infezione tenendola a livelli talmente bassi da non essere più contagiosa, grazie all'assunzione regolare di una terapia antiretrovirale: questo significa che deve essere favorito il più possibile l'accesso alle visite e ai farmaci, motivo per cui le terapie contro l'HIV sono inserite nei Livelli Essenziali di Assistenza. 
Ci sarebbero molte alte considerazioni, ma bastino queste per constatare come, in effetti, le policy identificate per portare quella che era una piaga storica a livelli di una malattia cronica, con la quale è possibile convivere anche molto bene, siano state disegnate in risposta alle caratteristiche del virus. Quello delle politiche di contrasto alla diffusione di HIV è un ambito tuttavia emblematico anche per il fatto che le politiche italiane (eccellenti) sono il risultato di un'alleanza tra mondo clinico, associazioni, imprese del farmaco e mondo politico: in particolare, il mondo clinico e quello associativo sono molto ravvicinati, vuoi perché il mondo associativo sopperisce ai servizi alla persona che il pubblico non è in grado di erogare, vuoi perché la cronicità crea relazioni umane molto forti tra persone con HIV e infettivologi; il mondo clinico è anche in contatto con le imprese del farmaco, nell'ambito dei trial clinici che hanno portato oggi a terapie avanzatissime e nell'ambito dell'attività congressuale, in gran parte sovvenzionata dalle aziende; il mondo clinico è infine in stretta relazione con il mondo politico, in quanto ogni tavolo regionale o Piano Nazionale include una componente tecnica in qualità di consulenti. 

Risulta chiaro, tuttavia, che il mondo clinico risulti il fulcro delle politiche di contrasto alla diffusione di HIV in Italia, e infatti l'esito è che, sebbene i risultati siano ottimi, ci si arena contro lo scoglio di circa 3500 contagi all'anno, un plateau che va avanti ormai da anni, che testimonia la presenza di un bacino sommerso di persone con HIV, stimato attorno alle 30 mila unità: persone che non sanno di essere sieropositive e hanno rapporti sessuali non protetti. Ecco ciò che l'approccio clinico non può comprendere: come persuadere il maggior numero di persone a ricorrere a precauzioni nei rapporti sessuali, come far sì che le persone facciano il test. Qui i medici vanno a tentoni: chi usa la strategia del terrore, chi vorrebbe fare test a tappeto, chi invece si arrende all'idea che non si possa fare molto. 

Che fare? Una soluzione pensata (sempre dai clinici) è di ricorrere al supporto delle associazioni, nell'idea che siano gli attivisti e i volontari a costituire la giusta cinghia di trasmissione con la popolazione. Giusto, in parte, ma non basta. Bisogna coinvolgere gli scienziati sociali, ossia Psicologi Sociali, Psicologi Clinici, Antropologi, Sociologi, ossia tutte quelle persone che conoscono il bagaglio di ricerche sulle determinanti dei comportamenti volti alla prevenzione o all'aderenza alle terapie, le buone pratiche, gli esperimenti sul campo, ecc. 

Veniamo al coronavirus. Si diffonde tramite le goccioline del respiro, le cosiddette droplet, quindi si può ridurre la probabilità di contagio tramite il distanziamento sociale e l'uso di mascherine chirurgiche; è molto contagioso, sopravvive a lungo sulle superfici e, data la nostra abitudine di toccarci bocca, naso e occhi in modo inconsapevole, risulta utile utilizzare anche guanti monouso per toccare nei luoghi pubblici; inoltre, risulta contagioso anche in fase asintomatica o paucisintomatica, caratteristiche che rendono il ricorso a distanziamento sociale, mascherine e guanti non solo protettivo per sé, ma anche nei confronti degli altri; non esiste una cura, né un vaccino, e una percentuale di persone contagiate esita in forme gravi che necessitano di terapia intensiva, motivo per cui sono stati allestiti interi reparti ex novo; infine, siccome è difficile controllare che tutti seguano alla lettera simili indicazioni, e il costo sociale ed economico di una mancata osservanza delle regole è al momento elevatissimo, il lockdown è risultato essere la misura più sicura. 

L'approccio ospedaliero al coronavirus è stato esemplare. Intere cliniche sono andati incontro a un totale riassetto organizzativo, che ha visto la fluidificazione delle normali specializzazioni per reparto e un ridisegno in due sole macro-aree: Covid19 e non-Covid19. I medici ospedalieri, indipendentemente dal fatto che fossero internisti o chirurghi, infermieri, OSS, tutto il personale è stato reclutato per far fronte all'emergenza. I Pronto Soccorso sono stati riorganizzati totalmente, creando una funzione-cuscinetto che è quella dell'Osservazione, in cui vengono collocate le persone in attesa dei risultati del test prima di essere destinate al reparto Covid19 o non-Covid19. A fare invece acqua da tutte le parti, invece è stato l'approccio in termini di Salute Pubblica, ossia tutto ciò che sta prima, durante e dopo l'ospedalizzazione del malato. 

“Intere cliniche sono andati incontro a un totale riassetto organizzativo, che ha visto la fluidificazione delle normali specializzazioni per reparto e un ridisegno in due sole macro-aree: Covid19 e non-Covid19.”


Salute Pubblica significa innanzitutto contenere i contagi; in questo senso, già con l'epidemia di SARS del 2005 sono stati formulati dei protocolli di intervento, o comunque si è avviata un'ampia riflessione su come prevenire in futuro epidemie peggiori. Oggi si inizia a constatare come la seconda ondata di contagi, quella nosocomiale (che è stata anche la prima a rendere visibile il problema), fosse evitabile, e di come un lockdown precoce dei primi focolai avrebbe portato a un contenimento maggiore della diffusione del virus. Salute Pubblica significa dotare le persone più esposte, nel caso specifico il personale sanitario, di tutti i dispositivi necessari a lavorare in totale sicurezza, sia negli ospedali che nelle RSA. Dalle notizie circolanti, sembra che non tutti gli ospedali abbiano a disposizione mascherine, tute e guanti, mentre nelle RSA pare addirittura che la gestione sia stata a dir poco disastrosa. Salute Pubblica significa anche coordinare le attività di raccolta dati a livello centrale, perché benché l'epidemiologia non sia una scienza esatta, è comunque possibile tramite tecniche statistiche inferire quanti siano i reali contagi, quale la letalità reale ecc. Da questo punto di vista, ogni Regione si è mossa in maniera indipendente, cercando di accaparrarsi l'occhio di bue della stampa per mettere in scena il copione di "Io sono migliore". Salute Pubblica vuol dire coordinare la sanità ospedaliera e quella territoriale, ossia mobilitare le ASL affinché assolvano alla propria funzione di organizzazione della presa in carico integrata non solo dei malati con sintomi gravi (che, una volta in ospedale), sono in fondo al sicuro, ma anche di quelli con pochi sintomi o nulli (come si sta sperimentando a Piacenza). Salute Pubblica, infine, in un territorio regionalizzato come quello italiano, significa analizzare rapidamente le buone pratiche e metterle a sistema, ossia creare quantomeno un meccanismo di apprendimento centrale che raccolga, analizzi e smisti i modelli che si sono rivelati efficaci. 

Salute Pubblica, oggi, significa valorizzare l'infinità di saperi che possono dar vita a policy sofisticatissime ed efficaci per la gestione di situazioni complesse che, dobbiamo dircelo, non sono l'anomalia della contemporaneità, ma la sua espressione fisiologica. Cabine di regia in cui siano rappresentate: le Scienze Sociali, per identificare i modi in cui le persone tenderanno a comportarsi di fronte al pericolo di contagio e pre-trattare le immancabili frizioni tra attori diversi (per esempio, medici di base e ospedalieri), la Medicina, per integrare lo sguardo clinico ospedaliero con quello territoriale, l'Epidemiologia per tenere conto dei numeri e fare previsioni su basi certe, la Protezione Civile, per coordinare gli interventi a livello operativo, la Ricerca, per rivelare innanzitutto i dettagli del contagio, e poi dirigersi verso terapie e vaccini. Manca la Politica. Che forse non deve assumersi il compito della gestione esperta, ma di creare le possibilità affinché questa possa configurarsi e realizzarsi. 

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