PER QUESTA SINDEMIA SERVE UNA CURA DIVERSA
Se sei anziano o anziana, tu che leggi, il rischio di una prognosi infausta per l’infezione da SARS-CoV2 è maggiore; ma anche se soffri di obesità, se hai il diabete o se sei poco abbiente; se invece sei benestante, in salute, senza malattie croniche, il rischio di un peggioramento della malattia è inferiore. Negli Stati Uniti, è stato rilevato come l’essere afroamericano, ispanoamericano o appartenere ad altre etnie minoritarie possa essere considerato un fattore di rischio. Tutto questo contrasta l’idea diffusa secondo la quale il virus sarebbe una livella, come quella descritta da Antonio de Curtis. CoViD-19 è una malattia capace di dare risalto alle disuguaglianze, come si legge in un assessment della ASL 3 di Torino; di rendere evidente cosa significhi essere soli, non riuscire o addirittura non poter seguire uno stile di vita salubre, o non aver la possibilità di integrare la Sanità pubblica con quella privata. Per questo motivo, l’editor in chief di The Lancet ha tenuto a precisare che quella attuale non è una pandemia, ma una sindemia:
Two categories of disease are interacting within specific populations—infection with severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2) and an array of non-communicable diseases (NCDs). These conditions are clustering within social groups according to patterns of inequality deeply embedded in our societies.
Nel 2015, un documento sul sito del Ministero della Salute invitava a prestare attenzione alle malattie infettive, sottolineando che i fattori di rischio maggiori fossero:
- esposizione all’agente eziologico, che significa tenere in considerazione sia sottogruppi suscettibili che comportamenti individuali;
- bassa compliance del personale sanitario nella sorveglianza e nella prevenzione;
- stato delle strutture e delle organizzazioni in cui opera il personale sanitario, che spesso vincola la possibilità materiale di sorvegliare e prevenire;
- vulnerabilità del sistema di risposta a focolai epidemici.
Questo testimonia due fatti diversi: da un lato il rischio di contrarre malattie infettive e di un decorso grave delle stesse dipende sì da fattori individuali (la suscettibilità), ma anche sociali (gli stili di vita) e organizzativi (ospedali, ambulatori e sanità territoriale); dall’altro, che fosse da tempo noto che le malattie infettive rappresentino un pericolo oggettivo.
È evidente come CoViD-19 non possa più essere considerata solo come problema sanitario. Come ha sostenuto di recente Appadurai, il versante su cui il virus lavora maggiormente è quello sociale, che provoca ricadute economiche, psicologiche, e richiede un cambio di passo importante. L’approccio della Global Health intreccia le ragioni della Sanità Pubblica con quelle della tutela dei Diritti Umani, rompendo lo schema tradizionale secondo cui il medico fa il medico, mentre spetta alle associazioni di pazienti svolgere attività di advocacy per i propri diritti, vincolando così i pazienti a una relazione di antagonismo; parlare di Global Health significa accettare che i Diritti Umani vengano incorporati dagli stessi sistemi sanitari, si tramutino in abitudini di programmazione, in routine quotidiane; insomma, una Medicina capace di inoculare con la terapia del corpo anche soluzioni per ridurre le disuguaglianze.