SOLITUDINE LA FOLLA

Una vignetta di Neuro-habitat, fumetto sugli hikikomori


Lo abbiamo vissuto tutte e tutti, ognuno con una propria sensibilità, quel momento in cui è stato comunicato che, per ragioni di sicurezza di tutta la Nazione, saremmo stati temporaneamente privati della libertà di circolare per le strade. Sono ancora ignoti gli effetti profondi che ha avuto la semplice esperienza di un simile momento; ci vorranno forse anni per decodificare le tracce che tutto questo ha lasciato. Vale per questo la pena spezzettare l'enormità di quanto accaduto, ed esaminare ogni frammento preso singolarmente, magari concentrando l'attenzione su chi meno evidentemente è stato protagonista della pandemia: per esempio, ben prima della Covid-19 e del confinamento, in Italia e nel mondo diversi adolescenti (si stima essere circa centomila su tutto il territorio nazionale, attorno a 1 milione e 200 mila in tutto il mondo), e non solo, hanno deciso di chiudersi in casa e si rifiutano di avere contatti diretti con il mondo esterno. Si tratta degli hikikomori, parola giapponese che significa "stare in disparte", persone con un'età variabile, che in Italia è bassa, si tratta prevalentemente di adolescenti o giovani adulti, mentre in Giappone arriva anche oltre i quarant'anni, più spesso ragazzi che ragazze, molto frequentemente appassionati di videogiochi, anche se questa non è una caratteristica necessaria. 

Ben prima della pandemia e del confinamento, in Italia e nel mondo diversi adolescenti (si stima essere circa centomila su tutto il territorio nazionale, attorno a 1 milione e 200 mila in tutto il mondo), e non solo, hanno deciso di chiudersi in casa e si rifiutano di avere contatti diretti con il mondo esterno.

Secondo un comunicato del CNR, il confinamento in casa ha avvicinato tutti, adulti e non, a uno stile di vita hikikomori. Anche secondo l'Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici, nel periodo in cui tutti sono rimasti chiusi in casa gli adolescenti si sono pericolosamente avvicinati allo stile di vita hikikomori:

[…] abbiamo creato adolescenti sempre più digitalizzati e isolati, veri e propri “hikikomori” che si alzano la mattina un minuto prima di collegarsi con la scuola e mentre sono collegati mantengono attivi cellulare e social mandando e ricevendo messaggi, WhatsApp, post.

Gli hikikomori stanno ricevendo negli ultimi anni moltissima attenzione, che va spazia dall'ambito psichiatrico a quello del lavoro sociale e investe tanto gli accademici quanto la società civile, anche se l'esperienza personale mi suggerisce che a essere più preoccupati di tutti siano proprio i genitori. Sul motore di ricerca PsychInfo è evidente la crescita di pubblicazioni dal 2002 al 2019 (con un picco nel 2015), il che può essere considerato indicativo proprio dell'interesse crescente. 

Totale delle pubblicazioni su PsychInfo corrispondenti alla voce di ricerca "hikikomori"

Esistono alcune direttrici ormai consolidate nell'approfondimento scientifico dello stile di vita hikikomori. Nei primi lavori di ricerca e dibattiti internazionali, ci si domandava se si trattasse di una sindrome legata alle caratteristiche della cultura e della società giapponesi, oppure se si trattasse di una sindrome psichiatrica a sé; più recentemente vengono approfondite le traiettorie evolutive, i modelli familiari e le comorbidità psichiatrice; quesiti senz'altro interessanti sul piano del dibattito accademico, ma insufficienti come guida per intervenire, in quanto sembrano soddisfare le esigenze mediche della classificazione nosografica, ma non quelle dei ragazzi stessi e degli operatori di dare senso e direzione alle cose

In un lavoro antropologico di comprensione condotto raccogliendo storie di vita di persone ritirate in casa, l'autore mette in evidenza alcune voci importanti per orientarsi e capire; in primo luogo, afferma che le interviste fanno emergere una definizione di hikikomori come di un post-modern social renouncer, intrappolato tra una matrice sociale neoliberale e il modello di identità giapponese. Sottolinea poi il fatto che non si dovrebbe patologizzare la condizione di ritiro sociale, ma che dovrebbe essere letta come un idioma di distress, ossia uno stato di tensione tra la sofferenza individuale e la collettività che fatica a farsi riconoscere, in quanto ininterpretabile al di fuori del linguaggio della malattia. L'abbandono sembra essere una cifra inevitabile, e inizia con l'abbandono della scuola, combinato all'incapacità dei servizi di farsi carico del problema in modo tempestivo, cui segue una resistenza passiva alle pressioni sociali che nascono nei momenti di transizione. 

Nel suo racconto Bartleby lo scrivano, Herman Melville parla di un giovane che, di fronte alle richieste del suo datore di lavoro che non lo aggradano, risponde sistematicamente "Preferirei di no". Un muro comunicativo potentissimo, che viene calato senza ostilità o rabbia manifeste, ma in modo pacato ed educato, e che lascia esterrefatto chiunque cerchi di esercitare su Barleby anche la minima forma di controllo. Interessante è il fatto che, nel corso del racconto, i personaggi si scoprono totalmente disarmati di fronte a una formula così limpida eppure così tranchant, e non riescono ad argomentare altro per contrastarlo se non "Ma come? Si è sempre fatto così!". Allo stesso tempo, Franz Kafka nel racconto La tana descrive un personaggio che decide di scavare una monumentale tana sotterranea, nella quale passa tempi sempre più lunghi, e che arricchisce di cunicoli, anfratti, gallerie, spiazzi; la paura degli altri esseri umani spinge il protagonista in una metamorfosi estrema, che lo porta ad assumere sempre più le sembianze di un animale sconosciuto e perturbante.

Ricordo che così mi appariva Manuel, ragazzo di 14 anni che viveva sul proprio divano. Inizialmente era impossibile per me comunicare con lui, teneva la porta chiusa, una porta che sembrava dire, di fronte alla mia offerta di aiuto, "Preferirei di no". Iniziai leggendogli delle storie, e appuntamento dopo appuntamento mi fece entrare, poi mi parlò, fino a consentirmi di discutere con lui del suo mondo e delle sue scelte. Oggi è sempre in giro, se mi vede per strada finge di non conoscermi perché quasi sempre è accompagnato; credo abbia dato un colpo di spugna a quel periodo, durato quasi quattro anni, di totale chiusura nella penombra di quel salotto. 

Abbandonare il mondo è un gesto estremo, potentemente aggressivo, eppure rientra nell'esercizio di quei diritti che, benché parassitari, possono essere esatti in quanto non lesivi delle libertà altrui; anzi, è proprio un radicale esercizio di libertà quello che guida ragazze e ragazzi a troncare i rapporti fisici col mondo. 

L'abbandono sembra essere una cifra inevitabile, e inizia con l'abbandono della scuola, combinato all'incapacità dei servizi di farsi carico del problema in modo tempestivo, cui segue una resistenza passiva alle pressioni sociali che nascono nei momenti di transizione. 

In un lavoro di approfondimento psicosociale, emerge come dato che preoccupa gli autori il grado di solitudine esperita dai ragazzi e dalle ragazze hikikomori, anche se sul desiderio di relazioni si gioca una forte ambivalenza; in pratica, la solitudine è patita, ma quando si tratta di entrare in relazione con gli altri emergono desideri contrastanti, di cambiare modo di fare da un lato, di indugiare nelle abitudini dall'altro. 

Anche la scelta di solitudine dei ragazzi ritirati sociali merita di essere tenuta in considerazione in quanto scelta seria. Il mondo della poesia e dell'arte è animato di continuo da persone che hanno compiuto scelte radicali di isolamento, come Emily Dickinson, la quale decise, dopo essersi innamorata platonicamente di un uomo già sposato, di rinchiudersi nella propria stanza e di estraniarsi dal mondo. La lirica dei suoi componimenti testimonia la capacità della solitudine di creare mondi ricchi nello spazio solo apparentemente vuoto di una giornata vissuta in quattro mura: chiamerà "infinità finita" la forma più assoluta e quasi metafisica di solitudine, "che è un'anima al cospetto di sé stessa". 

La memoria dell'acqua
Woman by the sea, Will Barnet

Da un contributo sociologico arriva uno spunto importante, che invita a riconsiderare il fenomeno hikikomori in primo luogo come prodotto di un'attenzione culturale, nata in Giappone e capace di diffondersi nell'ultimo decennio nel mondo occidentale, e che ha portato a una produzione di discorsi disciplinari spesso di tipo classificatorio, psichiatrizzante e colpevolizzante - soprattutto - per le madri; gli autori denunciano una certa superficialità della critica sociologica sul ritiro sociale, e affermano che bisognerebbe guardare con più attenzione alle narrative sul Sé eroico, che escludono e isolano modelli di comportamento marginali. 

Mi aggiungevo inconsapevolmente a quella colonna di responsabilità, aspettative, regole con le quali più o meno esplicitamente viene richiesto a ognuno di noi di occupare un posto; e se non si tratta di un posto di successo, è diritto degli altri prenderci in giro.

Questo Ahmed lo sentiva fortemente su di sé. La mia presenza sembrava ricordaglielo: "Devi essere qualcuno". Mi aggiungevo inconsapevolmente a quella colonna di responsabilità, aspettative, regole con le quali più o meno esplicitamente viene richiesto a ognuno di noi di occupare un posto; e se non si tratta di un posto di successo, è diritto degli altri prenderci in giro. Effettivamente, se non avessi a un certo punto accettato di vedere il mondo attraverso gli occhi di Ahmed, di rendermi conto dell'assurdità e dell'inconsistenza della maggior parte delle richieste che ci vengono rivolte ogni minuto, oggi non sarebbe commesso presso un rivenditore di videogiochi. 

Insomma, il senso finale di questa breve rassegna vuole essere di invitare a non vivere con senso di allarme perpetuo le manifestazioni, anche quelle più estreme, dei ragazzi e delle ragazze, in quanto è in tutti loro che si schiude il mondo nuovo, e non è reprimendo l'espressione di ciò che ci spaventa che lo si farà apparire migliore. Anzi, spesso è proprio nell'incapacità di creare punti di contatto tra visioni che si costruiscono quei fossati che diventano "No", porte chiuse, incomunicabilità. Ogni tentativo di intervenire nel mondo degli hikikomori deve partire da qui.


Bibliografia

Berman, N., & Rizzo, F. (2019). Unlocking hikikomori: An interdisciplinary approach. Journal of Youth Studies, 22(6), 791-806.

Krieg, A., & Dickie, J. R. (2013). Attachment and hikikomori: A psychosocial developmental model. International Journal of Social Psychiatry, 59(1), 61-72.

Malagón, A., Alvaro, P., Córcoles, D., Martín-López, L. M., & Bulbena, A. (2010). ‘Hikikomori’: A new diagnosis or a syndrome associated with a psychiatric diagnosis? International Journal of Social Psychiatry, 56(5), 558-559.

Parsons, C. D. (1984). Idioms of distress: Kinship and sickness among the people of the kingdom of tonga. Culture, Medicine, and Psychiatry: An International Journal of Cross-Cultural Health Research, 8(1), 71-93. doi:http://dx.doi.org.proxy.unimib.it/10.1007/BF00053102

Sakamoto, N., Martin, R. G., Kumano, H., Kuboki, T., & Al-Adawi, S. (2005). Hikikomori, is it A culture-reactive or culture-bound syndrome? nidotherapy and A clinical vignette from Oman. International Journal of Psychiatry in Medicine, 35(2), 191-198. 

Tajan, N. (2015). Japanese post-modern social renouncers: An exploratory study of the narratives of hikikomori subjects. Subjectivity, 8(3), 283-304. Retrieved from https://search-proquest-com.proxy.unimib.it/docview/1732319167?accountid=16562


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