UNA PSICOLOGIA FUORI NEL MONDO

La scena che si ha spesso in mente in relazione alla psicologia è in realtà la psicoterapia o la psicoanalisi, ossia una situazione in cui c’è un esperto, lo psicologo, tendenzialmente con in mano un blocco per appunti, c’è un paziente, che in alcune situazioni è seduto di fronte al professionista, in altre è sdraiato su una chaise long e guarda davanti a sé, tra i due c’è il vuoto che in realtà è il pieno dei significati che nascono dal colloquio tra i due. Basta cercare tra le immagini di stock per constatare quanto un simile immaginario si sia radicato nel senso comune. 



L’idea di professionisti chiusi nello studio, di una psicologia che agisce sul comportamento individuale ma non si occupa dei fatti del mondo corrisponde a quello che Cowen nel ‘73 definiva il modello medicale office-based; sembra riecheggiare il discorso critico sugli antropologi da poltrona, e più in generale l’idea che gli scienziati sociali dovessero mantenere una distanza dal loro oggetto di studio pari a quella degli scienziati naturali. 

Come affermò Albee nel 1986, per agire in senso migliorativo sulla psicopatologia non si può prescindere dal trasformare le strutture di potere in cui le persone sono inserite: «[…] many mental conditions are not discrete diseases; they are often learned patterns of socially deviant behavior or idiosyncratic thought that result from stress, powerlessness, and exploitation». 

Il cambiamento è un fenomeno complesso, e a sua volta si articola in altri fenomeni, di scale diverse, in altri livelli di cambiamento che a volte nascono come conseguenza di del processo generale, a volte come eventi simultanei, inattesi, come sa chiunque si occupi di project management in ambito sociale. L’epistemologia del cambiamento che fa da sfondo alla psicologia di comunità declina le cause e i processi in almeno due livelli: 
  • cambiamento di primo ordine, di tipo incrementale e circoscritto; un esempio può essere l’accumulo di situazioni in cui una persona gestisce la propria rabbia in modo più riflessivo, o collezionare giornate in cui ci si sente a proprio agio con i vicini di casa;
  • cambiamento di secondo ordine, più profondo e rivoluzionario, comporta cambi di prospettiva e include la relazione con l’ambiente circostante; un esempio è un’azienda che intraprende un percorso sulla diversity per comprendere meglio le ragioni di un collaboratore, o un’amministrazione comunale che decide di avviare percorsi di co-progettazione con gruppi di cittadini. 
Si parlò la prima volta di psicologia di comunità come di un nuovo campo disciplinare e di pratiche in occasione Conferenza di Swampton, nel 1965. In questa cittadina marittima del Massachussets, che ricorda vagamente il villaggio de La Signora in Giallo, convennero una quarantina di psicologi da tutti gli Stati Uniti per integrare in una visione comune esperienze di un nuovo modo di fare psicologia, fuori dalle mura degli ospedali e degli studi, a fianco dei cittadini. 

L’humus che ha consentito la generazione e la diffusione della psicologia di comunità sono state le contestazione che a partire dagli anni ‘60 hanno pervaso interi continenti, a cominciare dal Nord America. Erano anni di critica profonda dell’esistente, di rivendicazione da parte delle masse popolari di diritti sociali e civili; erano gli anni in cui Martin Luther King, Malcolm X, Betty Friedan, Kate Millet tenevano comizi, scrivevano, mettevano in circolo le proprie idee.

Oltre al portato ideologico, si rilevava nel corso degli anni ‘60 l’insufficienza dell’approccio medico nel fare fronte ai problemi sociali. Di fronte a una società in cui le disuguaglianze erano diventate solchi profondi nella società, il malessere era dilagato nella popolazione: malessere economico, sociale e mentale. L’approccio dominante, tuttavia, era di collocare il problema altrove, lontano dagli occhi e dai sobborghi benestanti, giungendo però a un paradosso: le risorse pubbliche e private necessarie a detenere le persone con sofferenza psicologica in quelli che Goffman denominò asylum erano insufficienti, mentre i problemi aumentavano. Inoltre, aumentava la coscienza circa il ruolo che le condizioni materiali di deprivazione avevano sulla psiche; affrontare le conseguenze - il malessere psicologico - senza consapevolezza sulle cause - le disuguaglianze sociali, il razzismo, l’omofobia - era un approccio di corte vedute.

Non era la prima volta che una nuova psicologia sorgeva come conseguenza del montare di problemi: era accaduto un decennio prima con la psicologia clinica, sorta dalle difficoltà della psichiatria nel gestire i disturbi mentali riportati dai reduci della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1963, John Kennedy firmava il Community Mental Health Act, che proponeva la deistituzionalizzazione delle persone con psicopatologia, aprendo la strada a un nuovo tipo di gestione della sofferenza psicologica, affidata a centri territoriali in grado di fornire consulenza, formazione, servizi per i cittadini e ospedalizzazioni temporanee (Erickson, 2021).



Inoltre, si iniziò ad adottare anche in psicologia un approccio tipico della Salute Pubblica, ossia la prevenzione; l’intuizione sottostante, comune a molti professionisti, era che così come in Salute Pubblica persegue la soluzione di problemi di salute fisica modificando le condizioni in cui vivono le persone, allo stesso modo nell’ambito della Psicologia di Comunità si sarebbero potuti approcciare i problemi sociali. 

Come noto ai professionisti in ambito sanitario, la prevenzione si articola in strategie che intervengono a diversi stadi dello sviluppo di una patologia:
  • la prevenzione primaria riguarda la riduzione dell’insorgenza di malattie, ad esempio adottando uno stile di alimentazione salubre e praticando attività fisica;  
  • la prevenzione secondaria ha a che vedere con la diagnosi precoce delle malattie, in modo da evitare la comparsa di sintomi via via più gravi e da aumentare le probabilità di successo delle terapie, ad esempio tramite screening della popolazione;
  • la prevenzione terziaria riguarda l’insorgere di complicanze e le recidive, e punta ad adottare strategie di contenimento del danno, ad esempio attraverso riabilitazione;
  • la prevenzione quaternaria agisce invece come contrasto dele forme di medicalizzazione eccessiva, ossia in quelle situazioni in cui la malattia è assente ma si corre il rischio di patologizzazione.
Accanto a queste forme di prevenzione vi è la cosiddetta prevenzione primordiale, che cerca di modificare i fattori sociali che espongono al rischio. Come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità: «Esistono condizioni in cui le persone nascono, crescono, vivono e invecchiano, e il più ampio contesto di forze e sistemi che danno forma alle condizioni di vita. Tra queste forze e sistemi si annoverano le politiche e i sistemi economici, le agende di sviluppo, le norme sociali, le politiche sociali e i sistemi politici». 

Parlare di prevenzione significa considerare ogni problema in relazione alla filiera di fattori predisponenti, precipitanti, abilitanti, rinforzanti e determinanti; significa anche stare dentro quei problemi, dentro le dinamiche e i processi attraverso cui vengono generati, si sviluppano, evolvono e si trasformano. 

Nasce così, ufficialmente nel 1965, una psicologia decentrata, che sposta il focus dalla relazione tra individuo e terapeuta e lo ricolloca sulla relazione tra individuo e contesto; una psicologia che come laboratorio ha i quartieri, le città, le campagne, i borghi e le metropoli; che vede nelle disuguaglianze, nelle ingiustizie sociali, nella mancanza di diritti le minacce di sistema al benessere individuale. Una psicologia povera, in quanto nata in condizioni di scarsità di risorse e razionamento, ma ricca, di competenze, di incontri e di contaminazioni disciplinari. Una psicologia di cui sembra esserci bisogno anche oggi, soprattutto nel contesto sociale ed economico italiano.


Cowen, E. L. (1973). Social and community interventions. Annual Review of Psychology.

Erickson, B. (2021). Deinstitutionalization through optimism: The community mental health act of 1963. American Journal of Psychiatry Residents' Journal.




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