IL CREPUSCOLO DELLA PACE

Il conflitto israelo-palestinese è un argomento scottante, di fronte al quale spesso lo sforzo interpretativo, la tensione esplicativa arretra. È stato infatti per decenni un tema-pivot della discussione politica, un’idea organizzatrice, traslando un termine di Bruner, e ancora disvela il suo potenziale polemico, anche se negli ultimi anni si avverte un certo affaticamento nel trattarlo, sia a livello mediatico che di ricerca. 

Sicuramente il conflitto israelo-palestinese ricorda la distinzione tra processo, programma e progetto, dove il primo può durare anche più di una vita intera, il secondo abbraccia un arco temporale di due-tre lustri, il terzo dura qualche anno, di solito non più di tre: in tal senso, sembra essersi dissolta, o comunque assottigliata la dimensione del processo di pace, i programmi paiono in reciproca contraddizione, i progetti invece proliferano ma senza una guida e un orientamento comune.


È in questa cornice che vanno collocati gli ultimi avvenimenti, risalenti a inizio agosto, che hanno comportato centinaia di feriti e decine di decessi, tra cui una bambina di pochi anni. L’operazione, denominata Breaking Dawn, è partita da Israele, che ha attaccato preventivamente la Striscia di Gaza puntando alle basi missilistiche e a colpire il gruppo terroristico Jihad Islamica, per difendere la popolazione israeliana “con ogni mezzo e fino a quando è necessario”, come ha detto l’attuale premier Lapid. 

L’azione di difesa preventiva viola il diritto internazionale, ma si inserisce in un quadro più ampio di tensione crescente: a metà luglio 2022 si è arrivati ai minimi termini di una trattativa tra Israele e Libano legata alla definizione dei confini marittimi, dietro alla quale vi sono interessi estrattivi; la trattativa è in corso dal 2016, ma recentemente sembra essersi arenata e volgere allo scontro militare. Sempre a metà luglio, Biden aveva fatto visita al presidente palestinese Abu Mazen, affermando in una dichiarazione ufficiale che il popolo palestinese ha diritto a uno Stato indipendente, sovrano e dotato di continuità territoriale. Si tratta di un vero e proprio ribaltamento del lavoro portato avanti da Donald Trump e dal suo staff, che si era sviluppato in due tappe principali. 

La prima tappa fu nel 2020, quando Trump propose una versione della soluzione dei due Stati molto vicina alle volontà di Israele: infatti, secondo l’accordo, denominato Peace to Prosperity, i palestinesi avrebbero ottenuto la capitale del proprio Stato nella periferia di Gerusalemme, ma senza controllo sui luoghi santi, non avrebbero potuto detenere armi pesanti e non avrebbero potuto far ritorno in Israele; agli israeliani sarebbero stati riconosciuti invece gli insediamenti nei Territori Occupati e la sovranità nelle alture del Golan, oltre al diritto di annettere parte della valle del Giordano e blocchi di insediamenti in Cisgiordania. Definito da Trump il piano del secolo, fu accettato da Gantz e Netanyahu, ma non da Abu Mazen; la conseguenza inaspettata fu di unire Hamas e Fatah, che fino a quel momento non comunicavano, nell’organizzare la Giornata della Rabbiariaccendendo le braci del conflitto, e ha inoltre raccolto lo sfavore della Giordania, che insieme all’Egitto è uno dei due Paesi arabi che riconosce Israele; anche alla comunità internazionale il piano non ha convinto, portando al suo graduale abbandono. 

Senza soluzione di continuità, l’impegno di Trump è proseguito lungo un altro percorso, rapido e pragmatico, denominato Accordi di Abramo; l’insistenza dell’ex presidente nasceva dal bisogno di incassare un grande successo da poter esibire nell’imminente campagna elettorale. La tattica alla base dell’accordo consisteva nell’accerchiare sul piano diplomatico i palestinesi, dal momento che, come ha affermato il diplomatico Martin Indyk, «Abu Mazen intende entrare nei libri di storia per essere stato il leader che ha rifiutato qualsiasi compromesso sui diritti palestinesi». 


A differenza del primo tentativo, il secondo è andato a buon fine, e ha creato un equilibrio internazionale che ha parzialmente accontentato tutti, tranne i Palestinesi che non sono stati interpellati. L’accordo è stato siglato tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, e si è allargato successivamente a Bahrein, Marocco e Sudan. Gli Stati Uniti si sono portati a casa la possibilità di avviare un disimpegno nella regione, per concentrarsi sul Pacifico e sul bipolarismo USA-Cina; Israele ha ottenuto un’importante e storica apertura ai Paesi della regione, normalizzando i legami con i Paesi islamici, oltre che aver ripreso il processo di pace che era interrotto dal 2014; l’Egitto ha incassato la possibilità di spostare l’attenzione dai problemi interni legati al rispetto dei diritti umani; in generale i Paesi islamici sono riusciti così a ridurre le preoccupazioni sulla stabilità dell’area, sulla minaccia iraniana, sul tracollo del Libano, sulle rotte del gas e dell’energia. 

Tramite pragmatico approccio bottom-up, gli Accordi hanno sviluppato partenariati economico-finanziari, tecnologici e turistici, dando una vera svolta agli equilibri dell’area. Si tratta di un superamento - per molti analisti in senso peggiorativo - degli accordi di Oslo del 1993, basati su una volontà di compromesso non più attuale: la soluzione da una parte di un solo Stato, islamico e palestinese, e quella della Grande Israele agognata da Bennett dall’altra non possono chiaramente trovare una sintesi. Il consolidamento delle relazioni internazionali di Israele, combinata all'instabilità politica interna, ha acuito le tensioni con la Palestina: si è aperta una nuova stagione di sfratti a Gerusalemme Est, sono ripresi i lanci di razzi da parte di Hamas, a cavallo tra il 2021 e il 2022 Bennett aveva annunciato un piano che prevedeva il raddoppiamento dei coloni sulle alture del Golan, e di un insediamento con il nome di Donald Trump.

Le relazioni tra lo Stato di Israele e il popolo palestinese rimangono dunque conflittuali: la Giornata di Gerusalemme di Israele rimarrà per i Palestinesi la Nakbah, conservando quella configurazione tipica dei conflitti insanabili; da una parte gli abusi di potere, Iron Drome, la violenza esercitata tramite una burocrazia soffocante e discriminatoria, il controllo tramite la moneta; dall’altra una demografia del tutto avvantaggiata, i razzi, e due organizzazioni terroristiche non disponibili a scendere a patti. 

Non si può tuttavia parlare di simmetria negli effetti che il conflitto ha sulle due popolazioni. La vita dentro Israele è plasmata per molti versi su un modello occidentale di prosperità: Tel Aviv è tra le città in cui il costo della vita è più alto; il Paese è avanzato rispetto a temi come i diritti civili, ad esempio è riconosciuta la stepchild adoption, le coppie omosessuali godono degli stessi diritti di quelle eterosessuali, è prevista la gestazione per altri; su altre questioni come la libertà di stampa, invece, vige uno statuto di apartheid, per cui i giornalisti palestinesi sono sempre sotto tiro (dal 2000 sono circa cinquanta gli omicidi a danni di giornalisti perpetrati da israeliani). Stando alle dimensioni interculturali di Hofstede, il valore su cui maggiormente i Paesi arabofoni e Israele si avvicinano è Masculinity, mentre sugli altri si conserva sempre una certa distanza, che si risolve però in dominazione nell’area geografica condivisa. 

Per il popolo palestinese la condizione di base è quella di gruppo vulnerabile, come riconosciuto ampiamente in letteratura (Ayer er al., 2009); paradossalmente, gli studi di Lewin sulla vita oppressa degli Ebrei nei ghetti potrebbero applicarsi oggi ai palestinesi. La vita in Cisgiordania è impossibile per molti giovani, che trovano nel suicidio un sollievo alle proprie sofferenze. Anche la popolazione che vive nella Striscia di Gaza è costantemente sotto pressione, per via delle restrizioni, degli abusi e dell’insicurezza che grava sulle vite di ognuno. Con la pandemia la condizione dei palestinesi si è aggravata: senza elettricità, senza impianti per la desalinizzazione dell’acqua e di trattamento per le acque reflue, senza laboratori per le analisi dei tamponi, senza case, senza scuole e ospedali. Secondo un recente rapporto di Save the Children, l’85% dei giovani che vive nella Striscia di Gaza - molti dei quali non hanno mai conosciuto una parentesi di pace - manifesta sintomi di depressione e ansia.

Due sono gli aspetti in particolare che hanno rilevanza psicologica nella questione israelo-palestinese; in primo luogo il conflitto in sé, rispetto al quale bisogna dire che l’esperienza sul campo segna una grande distanza tra teoria e pratica (Cuhadar e Dayton, 2011): teoria dell’identità sociale, stereotipi e pregiudizi e teoria del contatto devono trovare percorsi definiti per una migliore messa a terra e diventare guide all’azione. Quello che è chiaro è che, dal momento che il conflitto in sé è diventato un oggetto sociale à la Durkheim, la disponibilità a impegnarsi per una sua risoluzione è mediata dall’atteggiamento verso il conflitto stesso. Quello che dice la letteratura sul tema è che non è scontato che l’atteggiamento sia favorevole, bensì i valori culturali hanno un ruolo cruciale nell’orientare la disponibilità a collaborare con le autorità deputate a condurre i processi di pace, insieme alla dimensione della power distance (Tyler, Lind e Huo, 2000): dove i centri del potere risultino diffusi e prossimi alla popolazione, questa sarà più disponibile a collaborare con l’autorità preposta. 


In secondo luogo, vi è la considerazione degli effetti clinici che la guerra ha sulle persone: questi sono visibili nella dimensione individuale, ma la comunità si riorganizza per diventare schermo di protezione. Da una revisione sistematica della letteratura psicologica relativa al conflitto israelo-palestinese, risulta che non sono solo clinici i risvolti dell’esposizione alle violenze, ma anche psico-sociali (Ayer et al., 2017): lo stesso atteggiamento nei confronti del processo di pace è influenzato dall’assistere alla scena quotidiana di violenze e abusi. Questo argomento avvicina al concetto di resistenza psicologica (Adams, 2022), ossia un insieme di strategie che il popolo palestinese ha messo in atto per preservarsi dalla condizione di inferiorità razzializzata, basate soprattutto sul consolidamento dei legami di comunità attraverso la valorizzazione delle tradizioni religiose e culturali, il sostegno reciproco, l’accettazione degli eventi come manifestazione di un destino. Un approccio decoloniale alle difficoltà del popolo palestinese richiederebbe un approfondimento sui vissuti di guerra al di là delle categorie dei manuali psicodiagnostici; è parte dello sforzo di Guido Veronese, che in un lavoro di ricerca (sono molti quelli dedicati al vissuto del trauma dei Palestinesi) raccoglie alcune definizioni e termini usati per descrivere gli stati interiori (Afana et al., 2020): si citano khoufa, la sindrome da paura, Tayah, che descrive la mancanza di autostima e di fiducia in sé, Rasi Fadi, la condizione di testa vuota, e molti altri stati d’animo. 

La questione israelo-palestinese è complessa, tuttavia - al di là della connotazione politica - le Scienze Sociali si sono espresse su alcuni punti. Innanzitutto, quello palestinese è un popolo vessato, soggetto a fortissime pressioni su più livelli. Poi, il processo di pace procede a singhiozzi e al momento appare sgonfiato di motivazione; i recenti programmi sembrano indicare la volontà di un cambio di passo, verso un silenziamento del conflitto più che puntare a una sua risoluzione. È importante, tuttavia, che la liberazione e l’emancipazione dei palestinesi non passi unicamente attraverso l’omogeneizzazione con il sistema di valori occidentale, ma che si riesca a preservare quella ricchezza culturale e sociale nata in parte proprio come risposta al conflitto. 


Ayer, L., Venkatesh, B., Stewart, R., Mandel, D., Stein, B., & Schoenbaum, M. (2017). Psychological Aspects of the Israeli-Palestinian Conflict: A Systematic Review. Trauma, Violence & Abuse, 18(3), 322–338. https://doi.org/10.1177/1524838015613774

Adams, G., Ratele, K., Suffla, S., & Reddy, G. (2022). Psychology as a site for decolonial analysis. (2022). Journal of Social Issues, 78(2), 255–277. https://doi.org/10.1111/josi.12524

Tyler, T. R., Lind, E. A., & Huo, Y. J. (2000). Cultural values and authority relations: The psychology of conflict resolution across cultures. Psychology, Public Policy, and Law, 6(4), 1138–1163. https://doi.org/10.1037/1076-8971.6.4.1138

Afana, A. J., Tremblay, J., Ghannam, J., Ronsbo, H., & Veronese, G. (2020). Coping with trauma and adversity among palestinians in the gaza strip: a qualitative, culture-informed analysis. Journal of Health Psychology, 25(12), 2031–2048. https://doi.org/10.1177/1359105318785697

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