FERMARE LA RISACCA ITALIANA

Il 56º rapporto del Censis denuncia, tra le altre cose, un Paese in ritirata, che vive di grandi insoddisfazioni senza riversarne la rabbia nei luoghi della contestazione: «Niente scioperi, cortei o piazze infervorate. È questo che fa parlare il Censis di “una ritrazione silenziosa dei cittadini perduti della Repubblica”, fenomeno che il rapporto legge anche nella percentuale record di astensioni, schede bianche e nulle registrata alle elezioni politiche dello scorso 25 settembre», si legge su Il Sole 24 Ore. Tuttavia, non si può dire che lo smarrimento sia frutto di una scelta individuale, né di una somma su larga scala di scelte individuali: piuttosto, si può parlare di una risacca generale, che dipende in gran parte dalle condizioni in cui si vive e si lavora.



In una ricerca di Trade Lab del 2019, emerge che il 51% dei Millennial sono preoccupati per via di difficoltà finanziarie, nonostante siano una generazione più formata di quella dei genitori; in una ricerca dell’Istituto Toniolo risulta che molti membri della generazione X e Y hanno abbandonato i propri progetti di vita. In un’analisi di Tito Boeri emergeva che il 45% dei lavoratori al Sud percepiscono meno di alcuni percettori del Reddito di Cittadinanza; i sindacati chiedono da tempo di rimettere al centro il lavoro, gli accademici fanno appello a una maggiore democratizzazione.  

In un’indagine di Gallup, emerge che procedendo dalle generazioni più giovani fino ai baby boomer si trovano percentuali via via crescenti di stress e burn out; le difficoltà economiche dei giovani, miste all’instabilità dei progetti di vita e di lavoro, espone maggiormente a problemi di salute mentale. La relazione tra lavoro e salute mentale è nota da decenni in letteratura (Warr, 1987) ed è stata sancita anche dall’OMS (2000).

Tutto questo non sorprende, dal momento che i tentativi fatti negli ultimi anni di mettere mano alle politiche del lavoro non hanno mai dato i frutti sperati (e promessi): il Jobs Act ha trasferito buona parte del potere negoziale dai lavoratori alle imprese, rendendo gli ultimi più facilmente ricattabili; il Decreto Dignità, che nel nome riprende il concetto importante di decent work introdotto dall’International Labour Organization, non ha modificato in modo sostanziale i numeri sul lavoro a termine; il salario minimo, misura urgente e capace di armonizzare gli interessi dei lavoratori e delle imprese, è rimasto arenato tra i veti di Carlo Bonomi e i tentennamenti di Andrea OrlandoNemmeno il PNRR, pur nella sua aspirazione a segnare un punto di discontinuità con il passato, pare in grado di stabilizzare i percorsi lavorativi e colmare le disuguaglianze tra lavoratori giovani e non, tra donne e uomini. 

È allora anche in questo scenario che va incastonato quanto rilevato dal Censis. Come esposto da Chiara Volpato a Quel che resta del giorno, perché nasca un movimento collettivo attorno a un problema è necessaria la speranza: senza avvertire la possibilità di cambiare lo stato delle cose, le persone non si mobilitano. Aggiungerei che serve speranza giovane, se non si vuole consegnare il mondo nelle mani do generazioni arrabbiate e rassegnare. Da questo punto di vista, si può dire che politica e stampa siano alleate nel concedere poco spazio alle istanze rivendicate dalle generazioni più giovani (Migliavacca e Rosina, 2022), e forse è da qui che si dovrebbe iniziare per ridisegnare le scelte: dall’ascolto di chi questo mondo lo vivrà più a lungo degli attuali decisori. 


Warr, P. (1987). Work, unemployment, and mental health. Oxford University Press.

WHO (2000). Mental health and work: Impact, issues and good practices.

Migliavacca, M., & Rosina, A. (2022). Il posto dei giovani, tra presente e futuro. Social Policies, 9(1), 3-14.

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