AISHA ROMANO E QUELL’ABITUDINE STRANA DEL VICTIM BLAMING
Nel 2018, a fine novembre, una giovane cooperante internazionale laureata in mediazione linguistica viene rapita in un villaggio del Kenya, Chakama, a un centinaio di chilometri da Malindi e altrettanti da Nairobi, mentre stava partecipando a un progetto per la ONG Africa Milele. La presenza di Silvia venne segnalata da un abitante del villaggio al gruppo di jihadisti somali di al-Shabaab, legato ad al Quaeda, che organizza il rapimento: un commando di circa otto uomini - di cui solo tre saranno identificati - la preleva e la trasporta in Somalia, dove rimane per circa un anno e mezzo spostandosi in almeno quattro covi diversi.
A maggio 2020, a pochi mesi dall’inizio del primo confinamento per via dell’emergenza CoViD-19, Silvia atterra all’aeroporto di Ciampino, accolta da giornalisti, fotografi, familiari e dall’allora premier Giuseppe Conte e ministro degli Esteri Luigi di Maio, che commentano rispettivamente «In questo momento di grande difficoltà, un segnale che lo Stato c’è» e «L’Italia non lascia indietro nessuno». Tuttavia, a colpire l’immaginario collettivo e a generare diffusamente discorso fu il fatto che Silvia si presenta alle telecamere indossando un hijab verde acqua, chiaro simbolo di appartenenza alla religione mussulmana alla quale, infatti, Silvia Romano - da lì in poi Aisha - dichiara di essersi convertita.
Nel 1981, Burger ha condotto una meta-analisi della letteratura, identificando due variabili che in modo particolare influenzano il fenomeno. La prima è la somiglianza tra l’osservatore (nel caso in esame il commentatore della vicenda) e il responsabile dell’incidente: qualora vi sia grande somiglianza, la responsabilità dell’evento sarà attribuita ad altro. Una seconda variabile è invece il grado di coinvolgimento generato dalla condizione sperimentale, nel senso che maggiore è la vicinanza alla realtà quotidiana, maggiore è l’effetto dell’attribuzione difensiva. Significa, in pratica, che l’ipotesi è verificata, e che le persone tendono ad attribuire a persone specifiche la responsabilità di eventi che invece dipendono dal caso, al fine di rinforzare l’idea che tali eventi siano controllabili.
Da quel momento in poi, l’opinione pubblica si riversa sui social media esprimendo forme di moralismo sadico, privo di empatia; tra le formule più diffuse, quella secondo cui Silvia Romano si fosse andata a cercare il guaio che poi ha vissuto, perché se non fosse partita per fare la cooperatrice non sarebbe mai incappata nel rapimento; lo stesso modo di pensare viene interpretato anche da Salvini, che già in relazione al caso di Greta e Vanessa, due cooperatrici rapite in Siria, aveva detto via radio «Ragazze se volete far volontariato fatelo vicino a casa». Un esponente della destra separatista veneta, Nico Basso, è arrivato a scrivere sui social “impiccatela”.
Un’interpretazione del fenomeno può arrivare dalla Defensive-Attribution Hypothesis, formulata per la prima volta da Walster nel 1966 come spiegazione dell’attribuzione causale per incidenti, secondo la quale il carattere fortuito di eventi catastrofici renderebbe importante l’identificazione di un responsabile: gli esseri umani, infatti, proverebbero disagio nel sentirsi totalmente in balía del caso, mentre il fatto di attribuire la causa di una sfortuna a un attore preciso diminuirebbe la sensazione di poter essere tutti ugualmente vittime. Nel caso di un’eruzione vulcanica, si potrebbe cercare tra i responsabili i geologi che non l’hanno presagita, nel caso invece di un incidente d’auto si potrebbe attribuire la colpa a chi non abbia segnalato il pericolo di incidente in quel punto.
Nel 1981, Burger ha condotto una meta-analisi della letteratura, identificando due variabili che in modo particolare influenzano il fenomeno. La prima è la somiglianza tra l’osservatore (nel caso in esame il commentatore della vicenda) e il responsabile dell’incidente: qualora vi sia grande somiglianza, la responsabilità dell’evento sarà attribuita ad altro. Una seconda variabile è invece il grado di coinvolgimento generato dalla condizione sperimentale, nel senso che maggiore è la vicinanza alla realtà quotidiana, maggiore è l’effetto dell’attribuzione difensiva. Significa, in pratica, che l’ipotesi è verificata, e che le persone tendono ad attribuire a persone specifiche la responsabilità di eventi che invece dipendono dal caso, al fine di rinforzare l’idea che tali eventi siano controllabili.
In un articolo più recente (Pinciotti et al., 2019), il fenomeno viene ricollegato in modo più esplicito al victim blaming, ossia alla tendenza a valutare la vittima di un evento sfortunato o grave come responsabile dello stesso. È stato il caso del giornalista Giambruno, compagno del Presidente del Consiglio, che commenta il recente aumento degli stupri delle settimane a cavallo tra agosto e settembre 2023 attribuendolo al comportamento troppo disinvolto e poco attento delle vittime. La ricerca mette in luce il modo in cui l’attribuzione causale difensiva (ossia la colpevolizzazione della vittima), proprio nei casi di violenza sessuale, riduca nelle donne la sensazione di poter essere ugualmente suscettibili di incappare nello stesso crimine.
Un altro concetto che può aiutare a interpretare e a farsi un’idea su quanto accaduto ad Aisha al suo ritorno è quello di Schadenfreude, un termine tedesco composto dalle parole Schaden (danno) e freude (gioia), e che descrive il piacere che proviamo quando qualcun altro soffre. Secondo Leach e collaboratori (2003), si tratta di un godimento malevolo che proviamo in modo particolare quando a subire il danno è un membro dell’outgroup, ossia una persona che reputiamo distante da noi. Da questo punto di vista, è possibile che Aisha sia stata percepita dai commentatori come appartenente a una comunità diversa dalla propria (per ceto sociale, per cultura o per religione), e questo abbia fomentato l’ondata punitiva nei suoi riguardi.
A tre anni dal rilascio di Aisha, molti quesiti rimangono ancora senza risposta, ma soprattutto sembra che il fenomeno della colpevolizzazione delle vittime dilaghi, sovvertendo quel dovere etico e civile del cercare di immedesimarsi con la parte lesa, al fine di promuovere soluzioni in linea con i principi della giustizia sociale. Come affermano Barron e collaboratori (2023), il fenomeno della Shadenfreude non riguarda in alcun modo il senso di giustizia, ma coinvolge solo il piacere del vedere che qualcuno sta male; una condizione che non può non sollevare interrogativi etici.
Pinciotti, C. M., & Orcutt, H. K. (2020). It Won't Happen to Me: An Examination of the Effectiveness of Defensive Attribution in Rape Victim Blaming. Violence against women, 26(10), 1059–1079. https://doi.org/10.1177/1077801219853367
Leach, C. W., Spears, R., Branscombe, N. R., & Doosje, B. (2003). Malicious pleasure: Schadenfreude at the suffering of another group. Journal of Personality and Social Psychology, 84(5), 932–943. https://doi.org/10.1037/0022-3514.84.5.932
Barron, A. C., Woodyatt, L., Thomas, E. F., Loh, J. E. K., & Dunning, K. (2023). Doing good or feeling good? Justice concerns predict online shaming via deservingness and schadenfreude. Computers in Human Behavior Reports, 11, 100317. https://doi.org/10.1016/j.chbr.2023.100317
https://doi.org/10.1177/1077801219853367https://doi.org/10.1177/1077801219853367