PREVENZIONE: LA PAROLA ALLA PSICOLOGIA

Quando si parla di prevenzione, e quindi anche quando si parla di prevenzione del contagio da Malattie Sessualmente Trasmissibili, si sta parlando di un fenomeno di pertinenza estesamente psicologica; questo non per negare, naturalmente, i processi bio-medici alla base delle infezioni virali, ma solo per ricordare che queste, le infezioni, sono spesso veicolate da comportamenti, e i comportamenti sono guidati da abitudini, norme, aspettative, accondiscendenza eccetera. Non ci sono infatti altre ragioni al di fuori della psicologia umana che possano spiegare come mai dal 1981 a oggi chi conosca l'HIV e il modo in cui lo si contrae insista in condotte rischiose per non dire lesive, nei propri e negli altrui confronti, e non è certo una ragione morale alla base di questa affermazione bensì epistemologica: alla Psicologia deve essere restituito un ruolo di co-protagonismo nell'ambito della prevenzione in termini di Ricerca, oltre quindi il contributo già noto e consolidato della Psicologia Clinica. E addirittura potremmo spingerci ancora più in avanti con il prendere posizione dicendo che la parte di counselling (per le persone che affrontano il test) e di presa in carico (per le persone sieropositive) debba essere in parte dismessa dall'essere solo terreno della Psicologia Clinica e condivisa con la Peer Education (il Mentoring può essere un buon metodo a tal proposito). 
  • la Minaccia Percepita della malattia da prevenire;
  • le Barriere e i Benefici derivanti dall'adozione del comportamento di prevenzione.
In Psicologia Sociale esistono fondamentalmente due modelli di riferimento, quando si parla di prevenzione, ed è bene che rimangano tanti per non generare confusione o perdita di riferimenti da parte di policy makers e attivisti non addetti ai lavori. La Ricerca è dall'esistente che dovrebbe muoversi, in termini senz'altro migliorativi, ma non dovrebbe scardinare un ordine di senso che a fatica si è creato e che ancora si stia costruendo; va bene il falsificazionismo, ma non il falsificazionismo selvaggio! L'Health Belief Model  è quindi un primo riferimento, e racconta in sintesi che sono due i nuclei di convinzioni che influiscono sulla probabilità che una persona adotti un comportamento di prevenzione:

La Minaccia Percepita deriva dalla considerazione circa innanzitutto la diffusione entro la popolazione cui appartiene il soggetto della malattia: le malattie rare, ad esempio, possono far scalpore ma non essere considerate pericolose proprio in virtù della loro scarsa penetrazione; allo stesso tempo la valutazione della minacciosità di una malattia è esito della considerazione della vicinanza al soggetto: ebola è tanto spaventosa quanto lontana dall'Europa, e per questo può non rappresentare una potenziale minaccia, mentre l'encefalopatia spongeiforme, la cosiddetta "mucca pazza", ha creato molto più allarme in quanto geograficamente vicina. Esiste un altro modo in cui è declinata la vicinanza, ovvero l'esposizione a messaggi a favore del comportamento preventivo: avere un parente che abbia contratto la malattia, lavorare accanto a persone malate o essere bersaglio di campagne di sensibilizzazione può secondo il modello portare a un aumento della probabilità che il comportamento preventivo sia attuato.


Tutto questo porta ad alcune delle tante riflessioni che sono state proposte al Settimo Congresso su AIDS e retrovirus ICAR2015, senza dubbio quelle più trasversali, circa la diminuzione dei fondi pubblici per le campagne a favore della prevenzione, l'estensione dei comportamenti preventivi dall'infezione da HIV e il calcolo (ora possibile) comparativo tra i costi economici della prevenzione e quelli della cura. 


Sulla prima questione l'attenzione deve essere massima, perché come suggerisce l'Health Belief Model il mantenere fresca nella memoria delle persone la necessità di utilizzare il preservativo o fare il test per l'HIV aumenta la probabilità che una delle due azioni venga intrapresa. Un tema da tenere assolutamente in considerazione rispetto allo sviluppo di campagne di sensibilizzazione è la persistenza del bacino degli adolescenti che contraggono il virus per via sessuale: un target difficile da intercettare, sia perché il tema della sessualità nei preadolescenti e adolescenti è un tabù, sia perché i soggetti stessi tendono a essere sfuggenti. Per questa ragione la scuola è un luogo ideale se si desidera interfacciarsi con un largo numero di ragazze e ragazzi, e sono loro stessi a ritenerla un luogo importante in cui raccogliere informazioni sulla prevenzione, come mostra un'indagine condotta dall'Associazione Nazionale per la Lotta all'AIDS che ha rilevato che più del 7% degli oltre 5 mila adolescenti contattati non conosceva nulla dell'AIDS, e che questo dato poteva essere spiegato dall'essere maschi o figli di almeno un genitore migrante; l'indagine svolta su più di 6 mila 14-18enni dalla Consulta Nazionale delle Associazioni per la Lotta all'AIDS ha portato alla luce i temi in particolare su cui c'è molta ignoranza, ad esempio l'85% considera pericolosa la puntura di una zanzara che abbia in precedenza punto una persona sieropositiva, il 92% non sa quando sia corretto fare il test dell'HIV e a cosa serva, ma soprattutto il 72% non conosce i rischi associati alle diverse pratiche sessuali. Caroline Foster dell'Imperial College di Londra denuncia il calo degli investimenti nelle campagne di sensibilizzazione all'uso del preservativo, laddove invece queste dovrebbero evolvere nella direzione di un progressivo affinamento della mira: prevenzione, prevenzione a scuola, prevenzione a scuola per adolescenti. 


Nel 2014, l'iniziativa Sex and Teens condotta per Il Fatto Quotidiano da Beatrice Borromeo rileva una certa disinibizione nell'ethos degli adolescenti, soprattutto delle ragazze, nei luoghi del divertimento; disinibizione del Sabato sera che porta poi al panico del Lunedì, quando ci si fa la domanda "Avrò usato il preservativo o no?": la cosa notevole è che la domanda spesso si accompagna a preoccupazioni circa possibili gravidanze indesiderate, più che sulla salute. In uno studio per l'Associazione per la Solidarietà Alessandra Bianchi e collaboratori rilevano che, tra i soggetti che ai rivolgono all'associazione per fare il test salivare, quelli con il maggior numero di partner sessuali erano i più giovani (in questo studio maggiorenni), maschi, sotto l'effetto di alcol e droghe: per questo sarebbe utile portare il test e in generale la prevenzione al di fuori dei luoghi consueti e realizzarli in luoghi non convenzionali, come - e soprattutto - locali notturni. 


Quando Isabelle Meyer-Andreux, di Medicins Sans Frontieres, parla dell'importanza del considerare i fattori culturali che influenzano i fenomeni di diffusione virale, l'invito può essere esteso anche  alla prevenzione, e quindi all'inscrizione delle misure proposte nei contesti di riferimento. Facilitare il compito a quelle persone afferenti a nicchie sociali poco attente, e propense a mettere in atto condotte pericolose in modo non del tutto cosciente può essere una via più efficace degli approcci classici anche quando si tratta di test: si pensi alla partecipazione nettamente maggiore ai test salivari, come dimostra Paola Scognamiglio dell'Istituto Nazionale di Malattie Infettive Spallanzani di Roma. 

Investire in prevenzione e nella Ricerca psicologica sul tema, ha una ricaduta in termini di efficacia ma anche di efficienza economica. Il tema economico è dirimente, non bisogna nascondersi dietro un dito, fingendo che la Sanità Pubblica operi in un regime di piena disponibilità di risorse; né si può però accettare che la scarsità si trasformi in una selvaggia competizione al ribasso sulla qualità del servizio. A fronte di una spesa sanitaria in diminuzione, sicuramente ciò che si può fare in termini migliorativi è riorganizzare l'esistente, eliminando i passaggi superflui, i percorsi reiterati, come afferma Emanuela Foglia dell'Università Carlo Cattaneo di Roma. 


Cosimo Colletta, responsabile di Medicina Interna della ASL di Omegna, in uno studio sui costi-efficacia dei vari approcci volti al contenimento e alla remissione dal contagio dal virus dell'Epatite C, mette in evidenza due importanti fatti: il primo, che un grosso pericolo in vista della riduzione dei fenomeni di contagio è rappresentato da chi ha contratto il virus ma ancora non lo sa, mentre il secondo è che la misura più costo-efficace in assoluto è la prevenzione: molto più della cura, soprattutto se consideriamo che i tempi di risposta in termini terapeutici sono troppo dilatati, come sottolinea Antonella D'Arminio Monforte, Dir. Dipartimento di Medicina dell'Università degli Studi di Milano, e che questo può precludere alcune chance di riuscita della terapia (si veda a proposito il lavoro di Giuseppe Lapadula dell'Ospedale di Monza).

In linea con quanto detto finora, sottolineiamo l'impegno profuso da una serie di attori, istituzionali e non, nella regione Emilia-Romagna, concretizzato in iniziative su tutto il territorio regionale, dirette a target variegati che vanno dai bambini delle scuole agli adulti. L'organizzazione - come sottolinea Michelangelo Boni della Modena AIDS Commission - è il vero punto di forza di azioni significative svolte in tempi diversi, secondo attitudini differenti, in luoghi distinti, poiché assume il ruolo di raccordo e centro generativo per la cooperazione, non facile e non scontata.

In particolare vorremmo citare la bella esperienza dei Test Day, un'iniziativa nata dall'intuizione del Dipartimento di Malattie Infettive, in particolare della Prof.ssa Cristina Mussini, e dal presidente di Arcigay Modena Alberto Bignardi; lo scopo prefissato è diffondere la cultura della prevenzione attraverso uno strumento che di norma è diagnostico: il test sanguigno per l'HIV. Viene quindi ad assottigliarsi la distinzione tra prevenzione in senso stretto, intesa come protezione durante i rapporti sessuali e precauzioni nello scambio di siringhe, così come cura particolare nelle analisi del sangue destinato alle trasfusioni e attenzione ai parti di madri sieropositive, e diagnosi; vengono piuttosto a coincidere, per almeno due ragioni: la prima, pratica, sta nel fatto che di fatto rivelare a persone sieropositive il loro stato sierologico impedisce i contagi involontari, il che è importante per combattere un virus che si diffonde ancora e prevalentemente per opera di persone che, ignare di avere il virus, divengono veicoli inconsapevoli di contagio. 

Considerando il test come strumento di prevenzione quindi, e non solo come screening, possiamo collocare la decisione di effettuarlo all'interno della cornice teorico-critica offerta dall'Health Belief Model, grazie all'ausilio dei dati raccolti dai resoconti dei counsellor per iniziativa mia e presentati al Congresso ICAR del 2015. Cominciando dal primo blocco, le variabili strutturali, vediamo che dal 2013 al 2015 la popolazione delle persone che si sono sottoposte al counselling psicologico pre-test era composta al 40% da donne, al 60% da uomini, con un'età media di 30 anni e variabile dai 18 ai 50 anni. Per quanto concerne la Minaccia Percepita, vediamo che nel 15% dei casi è un comportamento a rischio che determina la decisione di effettuare il test; la cosa curiosa è che l'episodio che raccontano i soggetti non è sempre recente, anzi a volte risale a un anno indietro e nel frattempo si hanno avuto ulteriori rapporti a rischio: è proprio questo il momentum principale del contagio, il canale che alimenta il bacino di quei 140 mila italiani che a oggi risultano sieropositivi; attraverso il counselling psicologico abbiamo accesso alla possibilità di esplorarne le pieghe decisionali ascoltando la voce stessa dei soggetti, attraverso la Ricerca di indagare le relazioni esistenti tra le varie ragioni espresse.

Nell'aggiornamento che io, Alberto Bignardi, Antonella Santoro e Cristina Mussini abbiamo presentato all'edizione di ICAR del 2016, la curvatura che abbiamo scelto è stata parzialmente differente: se l'anno passato abbiamo considerato come comportamento preventivo sia l'effettuare il test che utilizzare il preservativo, nel lavoro di ricerca presentato nel 2016 il comportamento preventivo su cui ci siamo concentrati è il solo uso del preservativo: questo ci ha consentito di considerare le variabili della scelta sia in persone che usano il preservativo che in persone che non lo usano. Inoltre, accanto alle variabili dell'Health Belief Model, abbiamo considerato più approfonditamente quelle della Teoria dell'Azione Ragionata. 

La Teoria dell'Azione Ragionata definisce il comportamento come influenzato da diversi ordini di informazioni, tra cui alcune relative al fenomeno in sé e altre sul tipo di comportamento che si dovrebbe adottare; accanto a queste, vi sono il comportamento che effettivamente viene adottato, la valutazione di questo comportamento e la distanza che ciascuno prende dal comportamento che si dovrebbe adottare. In altri termini, il vantaggio della Teoria dell'Azione Ragionata è che identifica più punti in cui può rompersi la coerenza tra quello che una persona sa, quello che sa di dover fare e quello che effettivamente fa. 
Per quanto riguarda i risultati, vediamo che l'implementazione dei dati dal 2015 al 2016 ha portato a una conferma degli elementi strutturali del campione, ossia l'età media è di 27 anni e mezzo, donne nel 51% dei casi (in aumento), uomini nel 49%. Il reclutamento diretto, avvenuto tramite richiamo dei passanti nella piazza principale di Modena, è stato il canale principale per portare le persone a effettuare i test. Assai interessante risultano i numeri derivanti dalla mappatura delle variabili dei due modelli considerati: nel 39% dei casi le persone decidono di effettuare il test a seguito di un comportamento rischioso, ossia in seguito a un aumento della Suscettibilità Percepita, consistente nel 73% dei casi in un rapporto sessuale eterosessuale completo senza protezione, per metà dei casi ripetuto. Per quanto concerne la Gravità Percepita, le percentuali sono irrealistiche ossia si pensa che la prevalenza del virus vada dall'1% all'80%. 

Un altro dato importante riguarda però le Barriere e i Benefici percepiti rispetto all'uso del preservativo: le prime consistono infatti in obiezioni circa soprattutto la riduzione del piacere, sulla disponibilità, sui costi; i benefici riguardano invece la prevenzione soprattutto dalle gravidanze indesiderate, e solo in secondo momento dalle Malattie Sessualmente Trasmesse. A parte questi aspetti di contenuto, anche numericamente il numero di argomenti contro è maggiore del numero di argomenti a favore, elemento che ci permette di fare un bilancio che vede in svantaggio la scelta di usare il preservativo.

Relativamente alle Norme, nell'84% dei casi i soggetti sono consapevoli della necessità di usare il preservativo; tuttavia ricordiamo che molti soggetti si sottopongono al test proprio perché non lo utilizzano, segnando quindi uno scarto incoerente tra Norma Soggettiva e Norma Effettiva. Una domanda che ci siamo posti a questo punto era se potesse in qualche modo esserci un'associazione tra la presenza di uno scarto in tali termini e la preponderanza delle Barriere sui Benefici: il risultato, meravigliosamente, ci ha confermato quanto ci aspettavamo, ossia che le barriere risultano preponderanti laddove vi sia incoerenza tra comportamenti e norme; in altre parole, nella démarche che va dal sapere cosa bisognerebbe fare per prevenire il contagio al farlo, sembrerebbe avere un ruolo importante il tipo di bilancio tra costi e benefici, in particolare vedere che lo sforzo sarebbe maggiore dei benefici si associa a una rottura nella coerenza del percorso.


I risultati ottenuti, per quanto fragili a causa di un campione poco forte, ci dicono alcune cose importanti. Innanzitutto ci permettono di identificare una zona molto sensibile, che è quella in cui le persone hanno un comportamento a rischio, sperimentano uno stato di ansia e preoccupazione ma dilatano il tempo della decisione di effettuare il test, avendo magari altri rapporti non protetti con altre persone. Ci permettono poi di considerare che le campagne volte a suscitare lo spavento nelle persone hanno funzionato, poiché la stima dell'impatto dell'infezione da HIV nella società è molto pompata. Tuttavia l'associazione tra incoerenza tra norme e comportamento e bilancio costi/benefici ci suggerisce che se dobbiamo investire in prevenzione, non ha senso continuare a rinforzare il messaggio normativo sull'uso del profilattico, perché che questo sia necessario già si sa, come mostrano i dati; è invece necessario agire sulla riduzione delle barriere percepite all'uso, inserendo il counselling psicologico non solo come cappello generale del processo di informazione, ma nella strutturazione di un sereno rapporto tra uomo e donna, dove l'utilizzo del profilattico non venga visto come un momento artificiale, di interruzione dell'eros e rinuncia al piacere, ma come un gioco complice e consapevole tra due persone che si assumono uno la responsabilità dell'altra. 



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