DI POLITICHE, LIBERTÀ E PREGIUDIZI

Nicola ha 84 anni, viene da Andria, come si nota da un accento che è rimasto inscritto nel suo parlare esattamente come lo sono i suoi ricordi. Appena arrivato “al Norde” era totalmente solo, all’inizio se l’è passata piuttosto male, e non ne parla, sembra che alcuni dolori siano ancora vivi, in un angolo recente della memoria. Messosi a lavorare in un negozio di utensili, inizialmente in nero come garzone, poi a libro paga, dopo qualche anno ha conosciuto una bella ragazza, figlia del droghiere. I due si frequentano per un po’ e “nasce una simpatia”, come racconta Nicola, ma che futuro avrebbe potuto assicurare lui a una famiglia? Parla con il suo capo, “con il padrone”, e chiede un aumento, dato che sono tanti anni che lavora per lui senza pretendere nulla; il capo rivela di averglielo già concesso, e aggiunge che in quegli anni gli ha sempre trattenuto quella parte in più di paga, messa in un libretto postale, fino a formare a quel punto un bel gruzzoletto: abbastanza per comprare una casa vicino al deposito dei bus, in via Esterle. 

Carmen è nata in Perù, anche se ricorda poco di quel luogo; a cinque-sei anni (non ricorda precisamente le date) si è trasferita con la famiglia a Milano. Erano benestanti, e le hanno pagato un percorso di studi presso una scuola privata, “dalle suore”; hanno anche acquistato una casa, nella quale tutt’oggi vivono, tutti insieme. Ha una brutta opinione degli stranieri, che secondo lei arrivano in Italia con troppe pretese e poca voglia di fare; basta andare al Parco della Martesana e vedere quanti africani spacciano, o quanti sudamericani bevono, senza apparentemente una prospettiva di vita. Lei, invece, ha studiato, e ora fa la OSS in un ospedale. Si sente italiana, anche se non ha mai fatto la trafila per diventare cittadina a tutti gli effetti, perché troppo impegnativa in questo momento della sua vita; tuttavia la farà, perché “non si sa mai quello che potrà succedere un domani”. 


Circa quattro anni, in concomitanza con l'apertura di CORE-lab, il mio studio, condussi alcune interviste autobiografiche a quelli che risultavano essere i soggetti che maggiormente  di rilievo nel determinare i solchi entro cui viaggiano i pregiudizi tra gruppi sociali: anziani e migranti. Il campo di indagine era via Padova, dove risiedeva lo studio fino allo scorso anno, una via di Milano oggetto di interesse per tanti studiosi, soprattutto di Sociologia e Antropologia, a volte anche di Design (che già alla fine degli anni '80 si interrogava se fosse una bella arte o una scienza sociale), mentre invece è rimasta piuttosto sottorappresentata la Psicologia Sociale, che si qualifica anche in questo caso come disciplina affaticata. 

Nel doppio tentativo di ovviare a questa assenza, seppur con un piccolo contributo, decidemmo di avviare un lavoro di ricerca che vide in una sua parte il contatto con le persone che più erano parse coinvolte nella creazione di discorsi tesi a screditare l'altro, che curiosamente erano anche i gruppi sociali con uno stile di vita più simile: anziani e migranti, che condividono il fatto di essere (spesso, nel caso dei migranti) fuori dal mercato del lavoro, e tendono a vivere lo spazio pubblico, in particolare parchi pubblici e panchine, in modo più pronunciato rispetto ad altri gruppi sociali. 

È stato interessante lasciar scorrere quasi in parallelo le registrazioni di anziani e migranti, perché in alcuni casi si veniva a creare una sovrapposizione pressoché totale nella successione di temi e di eventi: accadeva spesso, infatti, che il racconto autobiografico degli anziani fosse di per sé un racconto di migrazione, da un Sud che all’epoca - gli anni ‘60 - pareva lontanissimo. Si potrebbe parlare di omologia, nel modo in cui i comportamenti sono arrivati ad assomigliarsi in virtù degli stessi fattori: il vivere stipati in piccoli appartamenti, abitare in case squallide e fatiscenti, trasformare appartamenti in dormitori per decine di persone, il ricongiungimento con il resto della famiglia, la religione come riferimento spirituale e sociale, tutto questo mette in comune l’esperienza di vita sia degli anziani che dei migranti. 


Tuttavia, esiste un’importante differenza nei percorsi, nel modo in cui le politiche arrivano a interagire con lo spazio degli eventi di un migrante di ieri e di un migrante di oggi: è stato sorprendente constatare come quasi tutti gli anziani provenienti dal Sud avessero avuto modo di conoscere una figura che potremmo chiamare un angelo custode, ossia un uomo o una donna che, spontaneamente, avesse deciso di fare da mentore e da garante per l’immigrato dal Sud. La solidarietà poteva risiedere nel prodigarsi per dare un lavoro, o nel farsi carico delle spese per la scolarizzazione dei figli, in alcuni casi nel concedere una casa. Insomma, nella migrazione dal Sud vi sono stati alcuni attori che, attraverso il canale della solidarietà informale, hanno assimilato i nuovi arrivati, e hanno permesso loro di diventare parte del gruppo sociale di arrivo. 

Questo non è altrettanto possibile nello scenario delle attuali politiche migratorie. Difficilmente a Carmen accadrà lo stesso che è accaduto a Nicola, e sarebbe pressoché impossibile se Carmen fosse irregolare.

Le politiche migratorie sono in grado di generare - paradossalmente - illegalità (De Genova, 2002): per esempio, lo status di migrante regolare o meno può dipendere dal modo in cui sono stati attraversati i confini, ma anche dallo scadere di alcune condizioni che abilitavano la persona a rimanere sul suolo nazionale, ad esempio se si va oltre il termine di un permesso di lavoro; ne parla Jose Antonio Vargas in modo emblematico, della possibilità di essere per lungo tempo cittadini quasi a tutti gli effetti. Le scelte politiche contribuiscono a costruire socialmente la struttura dei fenomeni, che a sua volta si intreccia con stereotipi e pregiudizi (Flores e Schachter, 2018): ad esempio, lo status di irregolare condiziona la scelta di un migrante relativa al quartiere in cui vivere, orientando verso quelle zone della città in cui vi siano già presenti diversi connazionali, in modo da confondersi nella mischia e ridurre la visibilità (Asad e Rosen, 2019); questa dinamica insediativa, di contro, alimenta la sensazione che alcune aree della città siano sottratte agli italiani, come si sente dire spesso a Milano in zone come via Padova o San Siro. 

Al momento, stando all'ultimo rapporto della Fondazione ISMU, si stima che in Italia vi siano circa sei milioni di stranieri, poco meno di uno ogni dieci abitanti; gli irregolari ammonterebbero a poco più di mezzo milione. Dei regolari, i soggiornanti di lungo periodo sono il 63.1%, il che significa che una maggioranza di stranieri convive con gli italiani da diversi anni. Stando all'ipotesi del contatto, secondo la quale sarebbe sufficiente per due gruppi sociali diversi esporsi a momenti di contatto per ridurre i pregiudizi, una convivenza prolungata dovrebbe aver attenuato i pregiudizi; osservando il grafico di un approfondimento dell'Eurobarometro 2020 sull'immigrazione, tuttavia, l'Italia si posiziona quinta per atteggiamenti sfavorevoli all'immigrazione, preceduta da Slovacchia, Bulgaria, Grecia, Ungheria e Malta.

Eurobarometro 2020: Atteggiamenti verso l'immigrazione

Sorge una prima domanda: è possibile lavorare all’inclusione a queste condizioni? L’eredità culturale di Kurt Lewin è immensamente variegata, ma senz’altro dobbiamo a lui l’aver iniziato a trattare questioni come le barriere sociali a guisa di oggetti estremamente concreti: in altri termini, il fatto di poter avviare o meno un’azione, indipendentemente dal fatto che l’interdizione o la licenza siano determinate da una legge o da una norma informale, implica la presenza o l’assenza di una barriera, oppure il fatto che la barriera sia porosa. Considerando complessivamente le barriere e le possibilità di azione si ricava l’ampiezza dello spazio di libero movimento, una misura utile della libertà individuale, una sua rappresentazione plastica. In questo senso, una persona straniera ha meno libertà di una autoctona, dal momento che il suo percorso di socializzazione nel Paese di arrivo richiede una sorta di pratica di resistenza, di rinuncia ai diritti sociali per poterli recuperare in seguito, dopo aver mostrato abnegazione. Una seconda domanda è se quella dello status di illegalità/irregolarità non sia una barriera sulla quale intervenire prioritariamente e necessariamente, dato che impedisce la messa in campo di quelle strategie tipicamente italiane di contatto e assimilazione, che vanno dall’ironia alla solidarietà. Il non poter far nulla, l’obbligo a lasciare vuoto lo spazio tra noi e gli stranieri, non fa che alimentare paure e pregiudizi. 

Asad, A. L., & Rosen, E. (2019). Hiding within racial hierarchies: How undocumented immigrants make residential decisions in an American city. Journal of Ethnic and Migration Studies, 45(11), 1857-1882.

De Genova, N. P. (2002). Migrant “illegality” and deportability in everyday life. Annual review of anthropology, 31(1), 419-447.

Flores, R. D., & Schachter, A. (2018). Who are the “illegals”? The social construction of illegality in the United States. American Sociological Review, 83(5), 839-868.

Popular Posts